Roma, Sinister Noise.
Dopo un assenza dai palchi romani durata tre-quattro anni, i re dello space rock giapponese Acid Mothers Temple fanno finalmente ritorno nella Capitale. L’ultima volta risale al 2008 (o a inizio 2009), ma purtroppo non li vidi, pentendomene amaramente diverso tempo dopo: ai tempi non ero molto dentro al genere e non li conoscevo, quindi non mi ero posto neanche il problema se andare o meno.
Per mia fortuna, a questo giro, il concerto si tiene nello stesso posto della loro precedente calata, il Sinister Noise. Sebbene ancora oggi questo locale proponga molti gruppi assai lontani dai miei gusti, è l’unico serio vicino a dove abito. Nel corso degli anni, oltre ad averci suonato due volte, ci ho visto moltissime band molto diverse tra loro.
Questa sera ad aprire le danze ci sono gli Ape Skull, power trio capitolino dedito a un hard rock primordiale, tipico delle sonorità a cavallo tra la fine degli anni Sessanta e i primissimi anni Settanta. Di psichedelico non c’è nulla, ma tutto il resto sì, e si fa sentire perfettamente: l’energia e la classe dei tre sono tali che sembra di esser tornati quarant’anni indietro, come se nulla fosse cambiato da dopo Woodstock. Mentre la gente inizia ad entrare, loro continuano a suonare con la stessa grinta di quando a vederli, a inizio show, c’erano solo dieci persone. Propongono anche due cover, una di un misconosciuto gruppo kraut rock, gli Orange Peel, dal titolo “I Got No time”, e l’ultima, “Un Posto”, del famoso gruppo progressive rock Balletto Di Bronzo.
L’attesa cresce e dopo una mezzoretta salgono sul palco gli Acid Mothers Temple. Rientro nel locale non sapendo cosa aspettarmi: sono uno dei gruppi più acidi e spaziali presenti in circolazione, ma anche una delle formazioni più prolifiche che la storia della psichedelia abbia mai conosciuto (solo in questo 2012 hanno fatto uscire due dischi, Son Of Bitches Brew, ispirato al celebre album di Miles Davis, e IAO Chant For The Melting Paraiso Underground Freak Out). Come sospettavo, puntano molto sull’improvvisazione, quindi riconoscere i brani che propongono è un po’ difficile. Al di là di questo discorso, il quintetto nipponico è davvero in ottima forma e ci regala poco più di un’ora di trip lisergico, fatto di tempi in continuo cambiamento, suoni acidissimi, un moog della Roland che ci fa viaggiare come non mai e anche qualche strumento inaspettato: a un certo punto il bassista tira fuori pure un flauto dolce, l’ultima cosa che mi sarei mai aspettato da un concerto rock (non ne vedevo uno dalla prima media). Ma è con l’ultimo pezzo, “Pink Lady Lemonade” (ovviamente stravolta rispetto all’originale) che il delirio cosmico arriva al suo massimo. Ho bevuto mezza birra, sono completamente sobrio, ma nonostante tutto ogni tanto chiudo gli occhi e nella mia mente arrivano le immagini più disparate, grazie a tutta questa “fuoranza” uditiva. Forse, se fossi stato sbronzo marcio e/o fatto come una zucchina, sarei piacevolmente collassato da qualche parte, sognando di raggiungere le costellazioni ai confini dell’universo. Nel frattempo, tra una “visione” e l’altra, mi viene da pensare a come il quintetto riesca a fare tutto ciò senza il minimo supporto di megaschermi con filmati onirici e spaziali, come quelli che spesso ci sono negli eventi goa/psy trance, e ad un prezzo del biglietto più che accessibile (soli 10 euro). Ovviamente, il mio pensiero non può non ricollegarsi a Roger Waters, che verrà qui da noi riproponendo tutto The Wall con giochi di luci e immagini, ma per vederlo toccherà sborsare dai 51 euro ai 103, secondo i diversi settori dello Stadio Olimpico. Godo all’idea dei moltissimi illusi che avranno speso una fortuna credendo di assistere a chissà quale trip, mentre il pubblico presente al Sinister Noise oggi, per una misera decina di euro, si è beccato uno dei live più spaziali che io abbia mai visto. Avranno suonato solo un’ora, senza neanche un bis, ma sessanta minuti così è difficile superarli.