Magazine Diario personale

Acqua che porta male, sale dalle scale, sale senza sale, sale

Da Iomemestessa

Vent’anni solo ieri. Vent’anni proprio domani. Pioveva. Proprio come in questi giorni. Pioveva, e il vecchio fiume era gonfio e grigio. I vecchi dicevano: ‘è un fiume brutto’. Per quanto non occorresse essere particolarmente vecchi, o particolarmente saggi, per capirlo.

Era domenica. Sunday, bloody sunday. Al dì dla festa. Con un tempo come quello, tutti in casa. D’altronde, nella bassa padana, la domenica dopo i Santi, sotto una pioggia torrenziale, dove cazzo d’altro vuoi andare, a parte casa tua.

Non c’erano smartphone, iphone, ipad. Apple era roba per adepti, mica un prodotto di massa. E non c’era manco internet. O leggevi. O studiavi. O sonnecchiavi, nell’intento vano di mandare giù una porzione di agnolotti pari al fabbisogno calorico mensile di un boscaiolo.

Oppure ascoltavi la radio. Tutto il calcio minuto per minuto. Che mica come adesso, che oltre a internet e smartphone, c’è pure la pay-tv. No. Le partite si giocavano tutte insieme. Non c’era neppure la notturna, l’anticipo, il posticipo. E se volevi sentire i risultati, o ascoltavi Ciotti, o ti attaccavi a qualche tv locale.

Ma Ciotti aveva quella voce là. Che da sola valeva lo sofrzo. E poi, caso mai, poteva anche scapparci un altro ‘Clamoroso al Cibali’. Ma non divaghiamo.

Era una domenica di novembre. Come tante. Studiavo con scarso entusiasmo ed ancor meno efficacia per l’esame di statistica, di cui per sempre porterò nel cuore l’inutilità profonda del chi quadro. Almeno nella mia vita, ben inteso. La radio accesa, dicevo. A far compagnia in un pomeriggio che alle due faceva già buio.

Quando all’improvviso, saran state le quattro, anzicheno, le partite vengono interrotte dalla voce del sindaco di Alessandria, Francesca Calvo: “Chi ha dei gommoni è pregato di metterli a disposizione del Comune”. Dei gommoni. Ad Alessandria. Resterà per me l’immagine della disperazione (di questa donna) di un giorno che da quel momento diventa folle, convulso, senza senso.

Piccola città bastardo posto ha i problemi suoi già dal giorno prima ed è dalla mattina che si stan sgomberando le frazioni e dando ospitalità agli sfollati dei comuni limitrofi. Il vecchio fiume ha già invaso dal giorno prima le aree golenali, e quel che è peggio la grande piena non è ancora arrivata. Quando arriverà, farà ancor più danni del previsto, ma almeno non ci scapperà il morto. Ovviamente non includendo tra le vittime tutto l’inerme bestiame che sarà impossibile evacuare e le cui carcasse galleggeranno per giorni, o verranno rinvenute tra detriti, fango e varia umanità

Ma piccola città se la cava, in qualche modo. Certo ci saranno da ripulire fabbriche, case, cortili. Ma l’operatività non viene intaccata. Ospedale, scuole, comune sono ben arroccati. Le palestre pure. L’emergenza si gestisce con parecchia buona volontà, ma senza eccessi. E non fu cosa da poco.

Alba ed Asti son già sommerse. Dalla sera prima. E molti ricordano gli ovetti gialli delle sorpresine Kinder galleggiare dall’albese all’astigiano.

Ma ad Alessandria è tragedia. Vera. Alla fine i morti saranno 14. L’ospedale, che dal ponte vecchio erano pochi minuti, è completamente allagato. Oltre ai gommoni bisogna entrare in qualche modo in città ed evacuare i pazienti. Molti arriveranno a piccola città. Nella notte. Alcuni su auto private. Lo Stato non c’è. Non c’era. Non poteva esserci forse. Tutto troppo improvviso, inatteso. Lo Stato siamo stati noi. Ad organizzare. Ad evacuare. A tirar su l’acqua con le idrovore. A pulire case, fabbriche, magazzini. Quando dico noi, non intendo noi come persone. Intendo noi come comunità. Ho visto gente lavare i panni di emeriti sconosciuti. E renderglieli stirati. Ne ho visti altri lavare piatti, bicchieri, posate a casa di persone che manco sapevano chi fosse. Per mesi i professionisti han lavorato gratis, senza chiedere parcelle a chi aveva subito danni. E lo stesso fecero molti artigiani, mobilieri, piastrellisti. In quei tre lunghissimi giorni, in cui si visse in una bolla, naufraghi in un fangoso paesaggio lunare, ho avuto, fortissima, la sensazione che questo Paese fosse migliore di come ci appare ogni giorno. E’ durata tre giorni. Perchè a noi quel che c’ammazza non è l’emergenza. E’ la quotidianità.


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