Alphaville Cineclub ricorda i cento anni dalla nascita di Michelangelo Antonioni (1912-2007), proponendo, dal 18 al 23 aprile prossimi nella sua sede di Via del Pigneto 283 dalle ore 21.00, la rassegna monografica omonima attraverso una piccola ma significativa selezione dei suoi lungometraggi, a cui farà seguito prossimamente una seconda parte.
‘Penso che gli uomini di cinema debbano sempre essere legati, come ispirazione, al loro tempo. Non tanto per esprimerlo nei suoi eventi più crudi e più tragici, quanto per raccoglierne le risonanze dentro di sé.‘ Dal suo primo lungometraggio, Cronaca di un amore (1950), fino al più recente, Michelangelo Antonioni si è rigorosamente ispirato alla realtà del suo tempo per scandagliare conflitti e sospensioni, psicologie e sentimenti.
Regista borghese ed autore della crisi: Antonioni viene definito, di solito, con questi due attributi, comprensibili solo se inseriti nel contesto in cui l’autore ferrarese si trovò ad operare. Antonioni infatti, coetaneo di tanti registi neorealisti (nasce nel 1912), arriva al cinema solo negli anni Cinquanta. Più di altri quindi si trova ad essere espressione del trapasso da un’epoca all’altra. É per questo che la sua ricerca affronta tematiche individuali – il ruolo dell’intellettuale ed i condizionamenti che il contesto sociale impone al singolo – per le quali era necessario un linguaggio cinematografico capace di esprimere i tempi e gli spazi della psicologia umana. Si tratta una ricerca che, già presente nei documentari del regista, (Gente del Po, 1943) prende forme mature nel primo lungometraggio, Cronaca di un amore (1950, mercoledì 18 aprile ore 21.00), in cui emerge la vocazione di Antonioni a seguire i personaggi, a far parlare, più che i fatti, i comportamenti delle persone. Dall’analisi dei comportamenti egli giunge alla critica sociale, così come, attraverso i conflitti dei personaggi, descrive l’aridità dell’ambiente borghese in cui si muovono. Un metodo presente anche ne I vinti (1952, proiettato ad episodi nel corso della rassegna), dove oggetto d’attenzione è la gioventù europea che, all’indomani della guerra mondiale, è priva di qualsiasi valore etico: un italiano che, coinvolto in storie di contrabbando, rimane vittima della polizia, un inglese psicopatico che per vedere la sua foto sui giornali uccide una povera vecchia, un gruppo di francesi che durante una gita toglie la vita ad un ragazzo per il solo gusto di una esperienza sui generis. Il grido (1957, giovedì 19 aprile) segna una svolta nel cinema di Antonioni. Il tipo di ricerca delle opere precedenti viene mantenuto, ma utilizzato attraverso un personaggio di diversa estrazione: il protagonista, che vaga nel paesaggio piatto della Padania per tornare poi al punto di partenza, è un operaio che non si adagia sulla sua crisi, ma cerca, senza trovarla, una via d’uscita. Il suo dissidio, la sua crisi esistenziale davanti ad una realtà che muta in senso industriale colpisce qualsiasi individuo, anche se genera diverse reazioni a seconda delle singole personalità. La scena finale della disfatta disperata del protagonista sulla torre dello zuccherificio in cui per tanti anni ha lavorato, non a caso. si svolge parallela a quella di una manifestazione operaia contro la costruzione di un aeroporto militare nella zona. Antonioni si concentra su questi mutamenti della realtà sociale, cerca di comprenderne la complessità, le tensioni e gli sviluppi. É per questo, per rimanere attaccato alla realtà, che riconsidera anche la grammatica del suo lavoro. Un film che voglia analizzare gli sconvolgimenti che l’animo del singolo subisce dal nuovo che avanza, e descrivere i ritmi della psicologia umana, non può usare le tradizionali tecniche cinematografiche ma sente il bisogno di obiettivi e lenti e messe a fuoco particolari. Non può soprattutto affidarsi al rapporto di causa-effetto, ma piuttosto privilegiare particolari secondari, svolgimenti immotivati. É quanto accade ne La notte (1961, sabato 21), storia del lento sfaldarsi dei rapporti affettivi tra uno scrittore e sua moglie nel breve arco di tempo che va dal pomeriggio del sabato all’alba della domenica in una Milano disamorata, come la storia che Antonioni racconta. Si parte da un evento privato (la crisi di un amore ) che in altri film avrebbe dato inizio ad una trama intima e si arriva, come sempre nei film del regista, all’analisi sociale attraverso l’incomunicabilità e l’insicurezza di due personaggi che si ritrovano legati solo da un senso reciproco di pietà.
Da questo punto in poi la ricerca di Antonioni si colora di tinte sempre più pessimistiche. Il comportamento dei personaggi diventa un freddo agire, che è sempre meno l’espressione di un percorso psicologico da comprendere, bensì un dato di cui prendere atto. Un cammino di chiusura che Antonioni percorre nella trilogia dei sentimenti di cui scopre prima l’incapacità ne L’avventura, poi l’impossibilità e l’inesistenza ne L’eclisse (1962). La realtà cangiante capace di trasformarsi e di nascondere, altro tema caro ad Antonioni sin dai suoi primi lavori, diverrà in Blow-up (1966, venerdì 20) il regno delle apparenze, dove non tutto ciò che esiste risulta comprensibile e conoscibile: l’irrealtà può anche identificarsi nella realtà. Il film si chiude con l’immagine di un gruppo di studenti mascherati che giocano una partita di tennis, senza aver palle nè racchette È il primo contatto con un paradosso sociale che già riflette l’esplosione del ’68 ed il percorso che i suoi personaggi cercano nella realtà contemporanea dell’epoca, osservata il più possibile in contesti differenti. Con queste intenzioni fu concepito Professione: reporter (1974, domenica 22 aprile), acuta riflessione sui rapporti tra Occidente e Terzo Mondo con un grande Jack Nicholson qui fotoreporter di guerriglia in Africa, sorteggiatore di una vita qualunque per continuare l’esperienza del vivere, sapendo da subito che non durerà a lungo …
Inoltre, Lunedì 23/4
Omaggio a Claude Miller, autore Nouvelle Vague
H.21.00 Guardato a vista, Fr, 1981, 85’
H.23.00 La Petite Lili, Fr/Can, 2003, 90’
Introduzione alla serata a cura di Ugo G. Caruso e P. Salvatori
A pochi giorni dalla scomparsa, Alphaville dedica la serata al regista francese Claude Miller (1942-2012); esponente di spicco della Nouvelle Vague ed assistente di autori come Carnè, Bresson, Godard e soprattutto Truffaut che lo incoraggiò ad esordire nella regia, Miller si impone sin da subito come autore di un cinema nel segno delle inquietudini e dei lati oscuri dei personaggi, in cui la mano leggera riesce a descrivere tuttavia la crudeltà del vivere anche attraverso all’ottima scelta degli attori e le simmetrie con i suoi ‘padri’ cinematografici di riferimento.
Ne è un chiaro esempio ‘GUARDATO A VISTA’,(1981), raffinato suspence psicologico con sorpresa finale affidato alla sagacia di Michel Serrault ed alla solidità coriacea di Lino Ventura, qui ispettore di provincia alla ricerca di una sorprendente verità… Ma anche LA PETITE LILI racconta, ricordando Il gabbiano di Cechov, conflitti ed inquietudini sull’onda nostalgica di un passato migliore, strizzando l’occhio al Godard del Disprezzo