E’ passato tanto tempo da quando non ti parlo. Nei primi anni di matrimonio con la tua mamma,sai quante volte ti ho parlato nella mia mente? Ora a distanza di tanti anni, non ricordo quasi più il nome che avevo scelto per te. Sai tante volte tornando dal lavoro ho immaginato che tu apparissi ogni qualvolta che aprivo la porta della nostra casa. Quante volte salendo le scale, in quei giorni di speranza, mi è parso di sentire la tua voce: “ ciao papà “. Anche questo mio scritto è dedicato a te. Quante notti ho sperato che le tue braccia si aggrappassero alle mie gambe, come io facevo da piccolo con il tuo nonno Michele. Ora a distanza di tanti eventi lunghissimi, posso finalmente dirti come ti avrei chiamato.
Per tanti anni col vento che mi sbatteva in faccia, tra le fogli cadenti d’autunno, tra le nevi candide d’inverno, tra il caldo dei raggi del sole e tra il fiorire di ogni primavera, ho sperato in ognuno di questi momenti di chiamarti con il tuo nome “ Michele “, come mio padre. Come quel padre che tanto mi è mancato nei tanti momenti di fragilità e solitudine.
Mentre riavvolgo le scene del film della mia vita, un tuo pensiero invano cerco di ritrovare tra i tanti fotogrammi di una pellicola, ormai vecchia, stanca e consumata. Chissà, se anche tu da lassù hai una memoria del nostro tempo mai passato insieme. Forse anche tu vorresti ascoltare la mia voce. Forse anche tu vorresti che dicessi: “ figlio mio “. Forse anche tu vorresti sapere qualcosa di me. Forse vorresti che ti prendessi in braccio a parlarti della tua mamma. Anche lei, come fosse Penelope, ha vissuto dieci anni a tessere il tuo pigiamino di lana morbida e calda, in attesa del suo piccolo Ulisse. Sai quante volte la tua mamma ti ha accarezzato mentre dormivi tra noi. Si, perché per tanti lunghissimi anni, tu eri sempre in mezzo a noi. Ogni sera mi addormentavo e sognavo le tue ginocchia dietro la mia schiena, mentre la mano della mamma continuamente ti copriva. Ma poi al mattino trovavo sempre il vuoto tra me e lei. Ora che ci penso, già in viaggio di nozze, la tua mamma spinta da un inusuale ritardo delle sue cose, telefonò alla tua zia dicendo: “ ciao, mi sa che tuo fratello sta facendo le cose in grande “.
Forse quelle stesse cose erano più grandi di me. Quel dodici maggio del 1979, quando partivo nell’avventura della mia vita, non immaginavo che non ti avrei avuto accanto. Poi col passare del tempo, per tutti i giorni a venire, la lontananza del tuo sguardo, mi rendeva tormentoso e insicuro, mentre cresceva in me una convinzione di fissa negatività, che giorno dopo giorno ha pian piano abbattuto il mio ottimismo. Ogni volta, in mancanza di allegria, può spegnersi come una candela senza ossigeno ed è stato allora che mi sono sentito colpevole di averti negato al mondo. Dovevi vedermi quel giorno in ospedale, come un uccellino scampato ad un terribile nubifragio. Quando mi apparve un camice bianco, dicendomi: “ signor Posa, non si preoccupi, ce ne sono tanti, ma solo alcuni hanno mobilità “. Già dal primo momento di quella giornata, avvertii non poco disagio, quando una distaccata infermiera mi riempì la mano di un piccolo contenitore col mio nome stampato sopra, dicendomi: “ vada di là e quando ha finito, torni da me “. Tu non c’eri. Tu non hai visto il posto dove entrai quel giorno. Un piccolo bagnetto di servizio con tante scope e ramazze accantonate in un angolo. Una piccola finestra dava sulla strada alle spalle dell’ospedale. Tu non c’eri quel giorno, quando ripensando ai tanti film americani su “ Day Hospital “, dove tutto era pianificato. Tutto era funzionante e accogliente. Dove tanti resuscitavano persino i morti. Dove io immaginavo di trovarmi con tanti medici intorno. Dove i miracoli avvenivano più che in passato. La realtà, la mia realtà era completamente diversa. Mi trovavo in uno sgabuzzino e circondato da tante belle donne, dovevo inventarmi un orgasmo fruttifero. Devi credermi, quel giorno, mi fu tanto difficile trovare una ispirazione. Mi guardavo intorno, il mio harem era scomparso. Provai a guardare dalla finestra, cercando almeno una minigonna di passaggio. Ora capisco, si trattò solo di un momento di disarmante sconfitta.
Tra le mie onde altalenanti di fortuna e sfortuna, quel giorno, qualcuno strappò la tua mano dalla mia. Continuai a cercarti per tanto tempo ancora, fino a quando capii di non poter influire più di tanto su una sbadata sfortuna. Mentre la tua immagine affondava in un mare cupo e tormentoso. Nei mesi successivi mi ingolfai a ingerire medicine diverse tra loro, reperite non in Italia, ma soltanto dalle farmacie vaticane. Ogni volta che mi annegavo in una fiala disgustosa, sperai in un miracolo non molto lontano. Mi dicevo: “ vengono da lì, dal Vaticano, ci sono buone speranze “. Quale posto poteva essere più indicato per un miracolo? Finì soltanto che ingrassai quasi come un maiale. Ogni volta che buttavo giù quell’intrugli, mi saliva in gola un disgustoso vomito, ma io facevo come sempre affidamento su quella sfacciata fortuna che mi aveva sempre assistito. Quella volta i capricci di una fatalità beffarda erano tutti contro di noi. Col tempo, poi, ho vissuto come un condannato a morte. L’apparire della nebbia sul volto della tua mamma. Mai una parola si accusa. Mai tentò la fuga da quella squallida sentenza. Ora posso dirtelo, lei pur soffrendo più di me, sostituì la tua mano con la sua e con il sentimento del sorriso, lottò a lungo contro il male. Quel male squallido e sconosciuto che alla fine, senza sparare neanche un colpo, impedì per sempre di portarti tra noi. Sappi che questa lettera non è una confessione, tanto meno un diario. Io da sempre, dal giorno che tu non sei nato, ho sempre dialogato con te. Non ho vissuto tanto tempo con l’illusione, ma ho fatto dell’assurdo, quello che comunque tu eri con noi. L’ancora della salvezza. Lo scoglio dove potermi aggrappare nei momenti di forte tempesta. Scrivo anche con la speranza, ardente e sublime, che tu possa leggerlo da lassù. Se tu riuscissi a farlo, vorrebbe dire che qualcuno lassù si sta prendendo cura di te. Quando muore un figlio, resta la possibilità, ogni tanto, di portare un fiore sulla sua tomba. Quando un figlio non nasce, resta solo un’alternativa al dimenticare ed è quella comunque di pensare ogni tanto a lui.
Per me scrivere, vorrà dire che forse un giorno, chiuderò questa lettera e senza attaccarvi un francobollo, un giorno, quando “ Lui “ lo vorrà, la porterò di persona a consegnartela, così potrò stringere ancora una volta la tua mano che tanto tempo prima sfuggì, trascinata da un disegno contrario alle aspettative.
C’è una crudezza nei miei scritti. Ho continuato ad amarti anche quando la cruda realtà, senza pietà, si è presentata a me, senza alibi, senza alternativa. In quei giorni di smarrimento quante volte ho posato le mani sul pancione della tua mamma. Ho sperato che qualcuno spingesse dall’interno, convincendomi che forse almeno uno di quei piccoli birbanti fosse riuscito ad intrufolarsi nell’amore di una madre. Di chi potrei ricordarmi, in questa notte, se non di lei. Lei che non ha mai cessato di amarmi. Lei che mi ha sempre capito al volo, anche quando il silenzio faceva da padrone. Sai quante volte con lei, seduti sulla barca della vita, abbiamo ascoltato il suono del mare, con lo sguardo fisso in avanti a scrutare l’orizzonte. Senza parole. Solo intenti ad udire là, in fondo, tra il balbettare delle onde sospinte da correnti e venti, nel vago tentativo di vedere apparire una vela spiegata, dritta verso di noi. Una vela che portasse la lieta notizia. Che dicesse tra le ondulazioni del vento, che ogni cosa non era inutile. Che il nostro amore era più forte del caso. Come sarebbe stato bello se con quella vela fosse arrivato anche un tuo sorriso. Devo anche a questo mancato approdo se, quando il mondo mi ringhia addosso, spesso il mio umore non è stabile. Da sempre i suoi mutamenti mi portano dal buio totale ad accelerazioni ironiche verso ampi spazi di felicità. Tante volte accuso il colpo, ma poi reagisco e mi convinco che quel mondo assassino non può avercela con me. Ben altre sono le cose che l’impegnano. Ti dico questo, perché pur considerando la necessità parlarti, di aprire a te il mio dramma segreto, sento che in me cresce una energia che a tratti si fa largo tra le spine pungenti dell’incertezza. Mi completa. Mi gratifica con un senso di compiacimento che momentaneamente cancella il senso del terribile. Rivolgendomi a te con la mia biro, ormai quasi completamente consumata, provo una divertente curiosità. Immagino di dover soddisfare la tua voglia di sapere. Immagino che tu voglia conoscere qualcosa della tua vita mancata. Sapere di tua madre. Perciò prima di addentrarmi come sempre nelle contrarietà della mia vita, desidero che tu sappia di come sarebbe stato bello per te, essere tenuto stretto al caldo del suo seno. Di essere coperto di baci. Sai, io la vedo tutti i giorni, come si dedica a tanti altri. La vedo quando prende in braccio quella gattina e le parla sorridendo. Come se lei fosse la sua vera mamma.
Me ne accorgo dal modo in cui quella piccolina la cerca e le si addormenta vicino. Si sente protetta, inattaccabile e felice di vivere con una guerriera, così invincibile, da tenere costantemente lontano ogni pericolo. Saresti stato bene con lei. Ti avrebbe coccolato tanto. Ti avrebbe condotto lungo la giungla della vita, insegnandoti come fare, stimolandoti nelle scelte, fino a portarti a proseguire da solo, sicuro e forte con la consapevolezza di sapere sempre come agire.
Devi sapere della bellezza delle sue malinconie. Di come riusciva poi, sfruttando a proprio favore quei momenti di abbandono per ritrovare all’improvviso la spinta per riprendere quel cammino programmato anche per te. Devi sapere come era doloroso quei giorni dover rispondere a quelle domande: “ i figli, niente ancora ? “ noi abbiamo sempre vissuto assieme agli altri. Insieme a tanti bambini e in quegli attimi di allegria, di voci che si accavallavano, io seguivo anche quella voce un po’ diversa, come se non ci fosse in quel momento. Come se cercasse a far parte, senza togliere a nessun altro del mio mondo. Come se cercasse finalmente la sua mamma rapita malauguratamente dalla sorte. Quella sorte che accompagna sempre ognuno di noi mortali, donandoci tante cose belle. Tante cose degne di essere vissute. Mentre, ogni tanto si prende gioco di noi. Cosa credi che è sempre tutto uguale ? quello che a me è mancato, ad altri invece, con un cattivo disegno di voler quasi ripagare, ha tante volte esagerato. Sai quante mamme e quanti papà hanno dovuto lottare contro la miseria e contro le avversità della vita. Immobilizzati dal doversi occupare di tanti altri figli, senza avere grosse disponibilità. Quante mamme e quanti papà hanno dovuto abbandonare l’idea di occuparsi con tanto amore dei propri figli, travolti da colpe, tante volte frutto dell’ignoranza o conseguentemente a scelte diaboliche, senza tanta pietà, hanno poi determinato distacchi anche definitivi. Tante volte quel famigerato lieto evento, come noi grandi usiamo dire, ha alimentato una scintilla che sempre più ha incenerito l’affetto e il dialogo tra tante mamme e tanti altri papà.
Quando ero ragazzo, dopo la morte dolorosa e prematura di mio padre, tuo nonno, spesso dialogavo con me stesso, dicendomi: “ se un giorno avrò un figlio, gli darò tanto di quell’amore, tanta dedizione, come quella che sicuramente mi aveva dato e che avrebbe sempre continuato a dare tuo nonno, mio padre “. Già allora capivo, come era importante sentirsi determinanti e importanti per qualsiasi essere umano. Una considerazione che alleggerisce le fatiche e che anche se sono tante e dolorose, ti spingono ad andare avanti.
Ho accettato la tua mancanza, nella valle dei miei affetti più importanti, come ho accettato quella di mio padre, senza ossessioni e gelosie verso altri figli o verso altri padri. Considerando, con consapevolezza, che quanto era mancato a me, a tanti altri era stato destinato tanto di peggio. Non mi sono mai chiuso nel mio dolore. Mi è bastato attingere alla cronaca di tutti i giorni, per capire quanto sia difficile organizzare il proprio futuro. Sai quante volte vorrei trovarmi al fianco di quelle giovani madri, che sballottate da una cancerogena debolezza interna, hanno finito per scaricare i propri figli, appena nati, in un cassonetto della spazzatura. Avrei voluto suggerire loro di aspettare. Di non avere fretta. Di chiedere a quei corpicini, cosa vedessero in quel momento. Forse sarebbe bastato l’apparire di un sorriso sul volto di quei piccoli nati. Questo le avrebbero convinte di non buttare nel nulla la grande opportunità di essere mamma. Di essere considerate importanti. Di trovare la forza di andare avanti, poi l’amore avrebbe risanato tutto. Loro non sapranno mai cosa si prova a stringere una piccola mano di un bimbo mai nato. D’altra parte cosa è cambiato per loro ? oltre alla miseria e alla disperazione, hanno aggiunto l’onta di aver commesso un crimine che in modo sconvolgente, le priverà poi di apprendere l’ignoto meccanismo di un rapporto difficile, ma allo stesso tempo coinvolgente che nel tempo avrebbe donato loro, la certezza di essere state partecipi di tante altre pagine emozionanti di quel lunghissimo libro che è la vita.
Certe volte quando mi sento solo, irrimediabilmente invoco una forma di pietà verso me stesso.
Ecco l’apparire del dubbio. Cosa sarei stato ? sarei stato all’altezza ? o l’equivoco avrebbe potuto contrastare il nostro stare insieme, portandoci col tempo a prendere strade diverse. In quegli anni, non trovavo la forza di staccarmi dallo spiraglio di un chissà e mi lasciavo catturare da un’infinità di domande, nel tentativo, ormai debole e un po’ malinconico di rendere le cose incerte, prima fra tutte l’esclusione della tua mamma alla felicità. Immaginavo campane a festa che celebrassero il tuo battesimo. Il tuo primo giorno di scuola. La tua prima apparizione nel complesso mondo della società. Le tue sofferenze. I tuoi amori. Le tue gioie. Immaginavo le tue confidenze. Immaginavo quel magico momento in cui potevo poggiare la mia mano sulla tua spalla. Aiutarti nei momenti difficili. Immaginavo di diventare il nonno dei tuoi figli. E poi, dopo una vita fatta da tanti scricchiolii, da tante salite, da tanti stop improvvisi, ma da tanta felicità del vivere insieme. Dell’importanza, quella di essere l’uno per l’altro. Immaginando così, alla fine di partire, consolato dalla certezza di averti tramandato qualcosa d’importante, dove poter attingere con continuità, senza tentennamenti, indecisioni e paura