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Ad una settimana dal ritorno

Creato il 06 settembre 2010 da Dbellucci

Se torna il buio è perché siamo tornati a casa. La mia stanza bassa, coi travi che amo tanto, anche se li amano allo stesso modo i pipistrelli, ha del buio ovunque. E silenzio, finalmente. Sono stanto via abbastanza perché, almeno nella punta del pensiero, le case qui, e il verde attorno alle strade, mi sembrino nuovi. Appena fatti. Così mi sono addormentato, la notte del rientro. Avevo male qui e qui, siccome stavolta il viaggio se ne è fregato delle mie precauzioni, del paracadute, del termometro. Sarà stata la carenza d’ossigeno che offusca il sistema immunitario. Là, in quella carenza d’ossigeno che ha dell’azzurro il suo scudo più evidente, mi piaceva per lo più distinguere, da lontano, se fossero uomini o donne. Le donne, come in tutti i paesi del mondo, le distingui dal portare in spalla una montagna. Dicevo che è come durante una guerra. In questi paesi le donne sono sotto i loro fagotti di cose, fagotti colorati che mi sembrano le pance delle cornamuse. Se da lontano appare il bagaglio, prima del viso, allora è una donna. Sono silenziose che mi ci sono trovato in quel silenzio la notte del ritorno, senza gli antifurti onnipresenti a Lima, senza le grida in strada, ed è un silenzio pieno di vicende. Il silenzio di certi cimiteri. Mi sono addormentato bene, a parte il fuso. La mattina dopo, tornando verso il mio ufficio all’Università, il verde della nostra campagna è stato uno spettacolo. Però non avevo voglia di tornare, se non per sviluppare i rullini e vedere cosa fosse rimasto impresso.

Se parliamo del Perù o della Bolivia, è una benedizione avere tempo. Forse per tutti i viaggi si può dire la stessa cosa, ma in Sud America è ancora più vero. E anche in Asia. Soprattutto in Africa. C’è un’unica strada decente che attraversa il Perù, la Panamericana. Scorre lungo la costa, indicativamente da nord a sud, sino al Cile. Prima di arrivare in Cile, c’è la diramazione con la superstrada per Arequipa. Da Arequipa c’è la superstrada per Cusco. Da Cusco c’è il treno diretto per Macchu Picchu. Arriviamo al catalogo. L’unico percorso turistico parte da Lima, corre verso sud e in poche ore sei a Nazca. Nazca non la guarda nessuno, ma le linee nel deserto sì. Poi verso Arequipa. Si è a Cusco, volendo, in 18 ore. Da qui, con la superstrada, in 6 ore si è sul lago Titicaca.

Lungo questo percorso ci sono decine di autobus dai vetri azzurri. Le persone vestono in modo diverso. E’ tutto accettabile. Ottimi ristoranti. Suonano la musica per te. Hanno il lama per te, con le treccine rosa, per fartelo accarezzare. Non manca la benzina. Non c’è fango. Non c’è polvere. Non c’è il silenzio buono e pieno di storie di un cimitero. Ottimi alberghi. La gente non trasporta cose e se le trasporta è per vendertele. C’è molta fretta. Questa è la cose più impensabile per il Sud America: la fretta. Il programma. Le tappe. Tutto impensabile. Lungo questo percorso un macromondo che deve sopravvivere s’inventa, o almeno prova ad inverntarsi, la fretta. Per venirci incontro. Grazie a Dio, è comunque spesso una fretta imprecisa, approssimativa, come un piatto di spaghetti di grano tenero. Una fretta immangiabile.

Per me questo viaggio è stato, prima di tutto, gente che trasporta cose e non si sa perché e dove vadano, che vanno di deserto in deserto. Le persone che vestono come vogliono e non ti considerano e per loro sei trasparente come il vento. I lama che pascolano coi loro musi lunghi o i loro musi cicciuti, e si chiamano alpache e l’ho imparato a metà viaggio. Per me c’erano infatti solo i lama dal muso ciccio e quelli dal muso lungo, insieme ad una profusione di animali primitivi a cui davo il primo nome che mi saltava in mente: lucertola grossa, rondine dalla schiena azzurra, mucca di sasso, coniglio verde dalla coda lunga, sobrino… E poi polvere e nessuna fretta. Il programma me lo sono dimenticato coi primi scioperi e le manifestazioni che ci tagliavano fuori dalle strade.

Così abbiamo avuto il privilegio, perché si tratta di un immeritato privilegio di cui mi chiedo spesso “perché io”, di impiegare 9 giorni per arrivare a Macchu Picchu, attraversando le Ande su quelle mulattiere pazzesche per condizioni e dirupi. Qui abbiamo incontrato alcuni stranieri – pochi – e un pugno di Italiani come noi. Gli Statunitensi restano incredibili per i tragitti che scelgono e il senso dell’adattamento. In dieci anni di viaggi posso confermare un fatto che all’inizio credevo essere uno sciocco luogo comune: quello che io faccio con fatica, sia esso dormire, o mangiare una porcheria, o il freddo, o le zanzare, uno statunitense in viaggio lo fa con serenità. Pare quasi la sua normalità. Amo la loro naturale propensione al viaggio, al muoversi, frutto senz’altro del vivere in un immenso paese spopolato. Invece – leggevo una volta - noi Italiani nasciamo, ci innamoriamo, ci sposiamo (divorziamo), invecchiamo, crepiamo e venniamo sepolti, in media, entro 50 km dal punto zero, quello dove la prima volta abbiamo visto il sole. Non esprimo giudizi, perché anche io sono Italiano e sono innamorato della bella Vignola, il paese in cui vivo e in cui sono nato, nonostante alcuni scempi architettonici figli d’uno stupro che l’hanno segnata negli anni recenti. Però, mi fa pensare questa statistica.

Ad oggi, come per tutti i viaggi trascorsi, i ricordi più belli non sono mai legati alle cose che avevo messo in programma di vedere. Il fascino è di gran lunga superiore – e  per fortuna siamo fatti così – alla bellezza in senso stretto. Rivedo i dirupi fra le Ande e le ombre dei monti giallastri. I cieli la notte sugli altipiani boliviani, quasi a cinquemila metri. Le stelle quando si riflettevano sulle pozze ricche di minerali che non congelavano mai. Il fresco sotto ai piedi delle canne tritate, sulle isole fluttuanti del lago Titicaca. Il mondo senza orizzonti lungo il salar di Uyuni. Le lamiere della città di Humberstone, abbandonata da 60 anni a decomporsi in Cile, nel deserto di Atacama. C’era vento quando siamo andati,  e le lamiere ballavano senza muoversi sulle nostre teste tirandosi dietro una ruggine rinsecchita e mescolata col sale. Il silenzio. E’ un silenzio talmente denso, amici miei, che pare davvero che abbia un segreto. Uno se lo chiede e se lo continua a chiedere.



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