Nell’Italia del fascismo di ritorno, quello “fashion e spranghe” di Casa Pound e soci, quello rozzo e “popolare” della Lega, quello in doppiopetto dei tanti “post” che stanno nelle fila del Pdl, arriva la notizia della morte di Giorgio Bocca, scrittore, giornalista e soprattutto antifascista.
Non mi piace santificare nessuno ma non mi piace neanche l’atteggiamento di coloro che già hanno cominciato (solo) a puntare il dito contro gli errori commessi dal Bocca giornalista. Lo dico chiaramente: mi ha fatto molto male vedere uno dei suoi ultimi interventi l’anno scorso ad Annozero. Pochi argomenti, populismo e demagogia. Così come non ho mai amato i suoi editoriali sull’Espresso negli ultimi anni, troppo intrisi di moralismo. Ma questo non può eclissare la grandezza di un uomo che può essere a tutti gli effetti considerato uno degli artefici dell’Italia libera. E per concludere su questo punto, rubo una frase dedicata a Vaclav Havel da un articolo apparso sull’ultimo numero di Internazionale: “sono errori che fanno parte della normale vita politica e che fanno di un santo irreale una persona normale”.
Detto ciò, io voglio ricordare il giovane coraggioso, tra i primi a prendere la via della montagna in quel settembre ’43, il cantore di un’utopia per poco concretizzatasi nelle Repubbliche Partigiane. Lo scrittore che nella guerra di Liberazione ha visto una parentesi felice in cui l’Italia si è per poco liberata dal suo male atavico: il qualunquismo, lo stesso attegiamento che aveva consentito l’affermarsi del Fascismo. Nel 2004, nella prefazione a una nuova edizione di Partigiani della montagna, scriveva:
C’è una campagna di denigrazione della Resistenza: diretta dall’alto, coltivata dai cortigiani. Il loro gioco preferito è quello dei morti: abolire la festa del 25 aprile e sostituirla con una che metta sullo stesso piano partigiani e combattenti di Salò, celebrare insieme come eroi della patria comune Giacomo Matteotti ucciso dai fascisti e il filosofo Gentile, presidente dell’accademia fascista, giustiziato dai partigiani, onorare insieme le vittime antifasciste della risiera di San Sabba e quelle delle foibe titine. Proposte da comitati di reduci che evidentemente non hanno mai sentito parlare dei lager in cui i fascisti, prima e dopo l’armistizio, hanno chiuso migliaia di cittadini colpevoli unicamente di essere di etnia slovena.
L’argomento delle nostre deportazioni è talmente poco conosciuto che il presidente del Consiglio Berlusconi può permettersi di parlare di un Mussolini che mandava gli “antifascisti in vacanza sulle isole”. L’uso dei morti per dimostrare che le idee per cui morirono gli uni equivalgono a quelle per cui morirono gli altri è inaccettabile. La pietà per i morti è antica come il diritto per i loro parenti e amici a piangerli, ma non è dei morti che si giudica, ma di quando erano vivi e stavano al fianco degli sterminatori nazisti. Ricostruiamo l’unità della patria, dicono, dimentichiamo la guerra civile, sostituiamo alle fazioni l’unità della democrazia. Ma la democrazia dov’è? Che democrazia è questa autoritaria che si va affermando nel nostro paese?