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Addio a Giuliano Gemma, “faccia d’angelo”

Creato il 02 ottobre 2013 da Af68 @AntonioFalcone1
Giuliano Gemma

Giuliano Gemma

Dopo la scomparsa dello sceneggiatore Luciano Vincenzoni, lo scorso 22 settembre, il cinema italiano subisce un’altra grave perdita, quella dell’attore Giuliano Gemma, morto in seguito ad un incidente stradale, avvenuto ieri sera, martedì 1° ottobre, a Cerveteri, vicino Roma, città dove era nato nel 1938. Simbolo di un cinema ancora genuino, capace di credere (e cedere) tanto alla fantasia del sogno che al senso dell’avventura, Gemma, sorriso spiazzante e fisico atletico, ha in tale ambito incarnato al meglio la figura dell’eroe popolare, spirito libertario e cuore nobile, ma nel corso degli anni è stato capace di andare oltre ed offrire interpretazioni dalle varie ed intense sfaccettature, anche sul versante drammatico. Al riguardo è stato coadiuvato da registi come Valerio Zurlini, col quale girò nel ‘76 Il deserto dei Tartari, dall’omonimo romanzo di Dino Buzzati, o Pasquale Squitieri che gli affidò il ruolo di Cesare Mori ne Il prefetto di ferro, ’77, anch’esso tratto da un’opera letteraria (Arrigo Petacco), senza dimenticare, fra i tanti, il sottovalutato Un uomo in ginocchio, ’79, diretto da Damiano Damiani.

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Diviso fra la passione sportiva, messa in pratica dedicandosi a ginnastica, attrezzistica, boxe, e quella per il mondo del cinema, entrò a far parte di quest’ultimo a 18 anni come stuntman e figurante, per poi essere notato da Dino Risi, che gli affidò una piccola parte in Venezia, la luna e tu (’58, riedito nel ’64 come I due gondolieri) e poi da William Wyler, arrivato a Cinecittà per girare Ben Hur, il quale lo scelse per il ruolo di un centurione: una semplice comparsata e niente di più (il nome di Gemma non risulta accreditato) ma utile per assicurargli un certo lancio.
Infatti, dopo aver svolto il servizio di leva come vigile del fuoco, venne chiamato da Duccio Tessari per un ruolo da coprotagonista nel suo film d’esordio da regista, Arrivano i titani, pellicola d’avventura sotto forma d’ironico peplum, innovativa nel generoso impiego di un umorismo dissacrante. Gemma nella parte di Krios, capigliatura biondo acceso e muscoli tirati a lucido, capo dei titani inviati da Giove per sedare la ribellione di Cadmo, re di Tebe proclamatosi dio, contribuì non poco al notevole successo del film, sia in Italia che al’estero.

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Dopo aver interpretato un generale garibaldino ne Il Gattopardo, 63, di Luchino Visconti, sul cui set ebbe la possibilità d’incontrare il suo idolo, Burt Lancaster, la carriera di Gemma arrivò ad una svolta definitiva due anni dopo, ancora una volta grazie a Tessari, il quale già collaboratore, tra l’altro, per la scrittura di Per un pugno di dollari (Sergio Leone,’64), volle cimentarsi nella regia di un western, quel Una pistola per Ringo che, insieme al successivo Il ritorno di Ringo (nonostante il titolo, l’impiego più o meno dello stesso cast e dell’identico set, non è però un sequel, bensì una storia autonoma) rappresentava un tentativo, riuscito, di smarcarsi dall’interpretazione del genere offerta dal citato Leone, la quale era volta soprattutto alla ricerca formale e ad un calcolato manierismo nell’esposizione della violenza sullo schermo.

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Tessari invece (rielaborando Ore disperate, William Wyler, ’55), con Una pistola per Ringo rivisitò il genere con toni da commedia, intento a superare il senso del tragico sfruttando la spensieratezza del riso, e Gemma nell’interpretazione di Ringo “faccia d’angelo” (sotto lo pseudonimo di Montgomery Wood) lo assecondò abilmente, dando vita ad una figura interessante nelle sue molteplici contraddizioni, parente alla lontana dell’Eastwood / “Straniero senza nome”: scarsa inclinazione alle regole, se non quelle forgiate sulla base di un personale tornaconto, quindi tendenzialmente anarchico, ma capace di gesti nobili, Ringo affronta la vita sempre con il sorriso sulle labbra e la mano a sfiorare l’impugnatura della Colt (ad inizio film il nostro giocherella con dei bambini prima di sparare, nell’incredibile duello finale usa una vecchia pistola a guisa di stecca da biliardo, giocando di sponda con una campanella).

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Da questo spaghetti western in poi i ruoli di Gemma nel genere furono numerosi, tanti i titoli nel corso degli anni, oltre ad altre interpretazioni (più di cento, le ultime rivolte, efficacemente, alla produzione televisiva), ma fra tutti mi preme ricordare Tex e il signore degli abissi,’85, diretto ancora una volta da Tessari con Gemma nei panni del mitico ranger, noto presso gli amici Navajos come Aquila della notte, nato nel ’48 dalla fantasia di Gian Luigi Bonelli, per i disegni di Aurelio Galeppini.
Non propriamente uno spaghetti, ma un tentativo potenzialmente idoneo, che non convinse però mai veramente del tutto, di dar vita ad un serial televisivo rimasto irrealizzato, dopo lo scarso successo di critica e pubblico. Finito nel dimenticatoio, rappresenta comunque, oltre alla mancata rappresentazione di un sogno, l’ultima incursione nel western tanto di Tessari che di Gemma, cui avrebbe giovato una meno pedissequa adesione al fumetto d’origine, non tanto nella visualizzazione dei personaggi, quanto nel senso di un distacco dalla rigidità delle tavole per un giocoso volo pindarico verso le sconfinate praterie dell’immaginazione, così da sopperire alla mancanza di un adeguato budget a disposizione.

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Era d’altronde quanto avveniva negli ormai lontani anni ’60 e Gemma, a parte le citate interpretazioni in film d’autore a testimonianza di un’indubbia versatilità, è stato fra coloro che hanno accompagnato nascita, evoluzione e successiva parabola discendente di un cinema genuinamente popolare, capace di investire in inventiva e “sana” artigianalità, spinte spesso entrambe dalla penuria di mezzi, offrendo, in un clima felicemente intuitivo, innovativa connotazione ai vari generi.
Adiós “faccia d’angelo”, cavalca leggero, verso il tramonto come da tradizione, rimarrai nel cuore di coloro cui hai reso lieta compagnia, permettendogli, nella fantasia di un ragazzino volta a prendere magica forma sullo schermo, di stare al tuo fianco, rendendo felice il fanciullo che siamo stati e, a volte, vorremmo ancora essere.


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