di Iannozzi Giuseppe
Lei era morta. La sapevo lì, nella bara. Di cristallo. Eppure, all’occhio era come viva.
Lei era del passato. Non era più mia. Ma il suo corpo riposava nell’eternità. Lo potevo toccare. La mano sulla lastra di cristallo. Quella carezza portata sul freddo cristallo. Così doveva essere la sua carne. Fredda.
Mai più quelle pallide labbra avrebbero pronunciato una sola parola. Né di amore. Né di odio. Io soltanto potevo far sì che parlasse ancora per me. Attraverso il ricordo che io nutrivo di lei. Era orribile. Non c’era davvero altro che potessi fare. Per alleviare la pena. Il dolore. Mio. Suo. Perché lei – ne ero sicuro – soffriva quanto me… vedermi così impotente. Lei sarebbe rimasta incorrotta. Per sempre. Quella teca la proteggeva. Teneva prigioniera la morte che l’aveva rapita. La morte godeva della sua verginità. Che io non avevo fatto a tempo di deflorare. Era un fiore, un pallido fiore. Le labbra carnose. Le gote bianche. Gli occhi come addormentati. Le dolci tempie appena venate di azzurro. E allora mi masturbo tra le lacrime. Per te. Perché bianco venga l’anno nuovo. Perché sia vergine ma sprecato di piacere. Di corrotto dolore. Almeno il poco che ancora è mio. Il poco che sento. Che so e non so. Come un gioco. Come un corto circuito. Nella tua anima spenta.