Possiamo tranquillamente dare l’addio all’Ilva. La speranza di veder rifiorire il grande complesso di Taranto tramonta definitivamente con la sempre più vicina vendita all’Arcelor Mittal, l’affossatore della siderurgia europea, che la Ue ha sconsideratamente lasciato in balia di qualunque pescecane. Qualcuno, disinformato o pagato dalla disinformatia nazionale, osa persino vaneggiare di una ristrutturazione del complesso in modo da renderlo una fabbrica normale e non una sorta di Bopal italiana. Ma sono illusioni da quattro soldi: i veleni dell’Ilva ce li terremo tutti per il poco tempo che la fabbrica continuerà a funzionare.
Come dovrebbe essere noto, Mittal, tycoon indiano la cui fortuna nasce dalla svendita delle acciaierie dell’ex impero sovietico e poi cresciuto grazie ai capitali finanziari anglo statunitensi che detengono il controllo reale della omonima multinazionale, è a capo di una di quelle nefande corporation che vive della massimizzazione dei profitti nel breve periodo (“l’orizzonte delle imprese di Mittal è il singolo trimestre” come denuncia il parlamentare europeo Lambert) e nell’acquisizione di aziende che vengono depredate di clienti e commesse per poi spostare la produzione dove più conviene o in alternativa abbassare drasticamente salari e manodopera. E’ storia: la Mittal nel 2006 acquisì la più grande azienda dell’acciaio in Europa, la Arcelor basata in Francia, per poi abbandonare a se stessi gli altiforni di Liegi, Grandange, Charleroi e Florange oltre a numerosi stabilimenti di lavorazione, nonostante le promesse, i giuramenti di ammodernare e salvare ambiente e occupazione: l’unico scopo era quello di acquisire il marchio e i relativi clienti per poi far produrre l’acciaio altrove. Un altrove che spesso acquisisce le forme di città ormai fantasma nell’est europeo, in Bosnia, Repubblica Ceka, Polonia, Ucraina, per non parlare del Kazakistan, dell’Ucraina o della stessa India. Ed è da notare che l’operazione truffaldina riuscì grazie all’appoggio di Chirac e di Junker, allora primo ministro lussemburhese.
E non solo loro: la Arcelor fece una furiosa resistenza all’acquisizione ostile della Mittal, ma Washington intervenne pesantemente a tirare i fili attraverso Goldman Sachs quando il colosso europeo pensò a una fusione con la russa Severstal, mettendo in pericolo gli equilibri che piacciono, come si è visto, alle amministrazioni americane: solo con questi “aiutini” ( a cui partecipò anche la Thissen Krupp tedesca e la complice italiana di Goldman, ovvero Banca Intesa) la Mittal di gran lunga inferiore come tecnologia, anzi votata alle produzioni di bassa qualità e anche meno capitalizzata riuscì ad acquisire la rivale.
Tutto molto furbo, molto contemporaneo, molto competitivo, molto multinazionale. Mi piacerebbe dire emblematico sia del liberismo che della subalternità europea oltre che dei giochi nazionali che si svolgono delle dietro il velame dell’unione continentale. E quindi si dovrebbe supporre che grazie al suo cinismo, la Arcelor Mittal sia una floridissima azienda. Invece ha circa venti miliardi di debiti, vale a dire più della sua capitalizzazione in borsa ed è stata via via degradata dalle società di rating. Eppure il consumo di acciaio su scala mondiale è cresciuto nonostante la crisi a causa della richiesta gigantesca dei Paesi emergenti, mentre il prezzo è salito solo di una frazione della quantità per due ragioni collegate: la produzione di acciaio nei Paesi in via di sviluppo è ancora molto frazionata e localizzata, dunque molto concorrenziale, mentre nei Paesi dove si potrebbero vendere i prodotti a maggior valore aggiunto, il crollo della domanda aggregata, dovuto allo sbaraccamento dei diritti del lavoro e dunque all’abbassamento dei salari, ha penalizzato le vendite. E i disoccupati creati dalla stessa Mittal sono una goccia che si aggiunge a tutto questo. Di fatto si tratta di un’azienda in rapido declino che accompagna quello ormai in coma di un modello basato sulla redditività a breve termine, che guarda solo ai profitti immediati degli azionisti e nemmeno per sbaglio all’interesse collettivo che è poi la fonte primaria della domanda.
Naturalmente questo contesto esclude che la Arcelor – Mittal faccia qualche investimento che possa mettere a rischio i profitti immediati: non ne ha mai fatti da nessuna parte accontentandosi dello sfruttamento selvaggio della manodopera finché dura. Quindi per bene che vada l’Ilva rimarrà una fabbrica di veleni, anche peggio di ora, fino a che la sua produzione non sarà spostata altrove e il complesso diventerà nient’altro che un guscio vuoto. Certo è sorprendente che tutti i recenti esempi di questo modus operandi, non contino nulla, che Junker, forse non disinteressato promotore dell’operazione Arcelor, sia diventato presidente della commissione Ue, che i governi italiani del tutto implicati in un modello ormai in putrefazione, cerchino di liberarsi in questo modo del problema Ilva. E’ ovvio che vendere il complesso di Taranto a una simile multinazionale, se non in un quadro che veda la partecipazione azionaria anche dello stato, significa continuare ad avvelenare la città più di prima in vista di una chiusura morbida e mediata, con l’unico vantaggio di allontanare la politica compiacente dall’epicentro del disastro.
Del resto essa per prima è divenuta portatrice dei valori Mittal, secondo cui licenziando, razionalizzando, avvelenando, sottopagando, si ottengano risultati straordinari: alla fine c’è sempre il buio in fondo al tunnel.