La gente vive di mitologia e simboli e i nostri politici non fanno eccezione. Un elemento mitologico radicato in gran parte della classe dirigente del nord, soprattutto – ma non solo – della Lega, crede che Milano sia migliore di Palermo, Napoli e Catania. Lo scontro tra Matteo Salvini e Sergio Rizzo e Massimo Russo sul tema della presunta collusione della Lega con la mafia andato in onda su La 7 a L’aria che tira ne è una chiara dimostrazione. Ma, a Dio e a Salvini piacendo, le cose non stanno proprio così, tanto che mercoledì 17 ottobre sono stati due giovani palermitani, ospiti della parrocchia di S. Giustina nel quartiere di Affori, a dare lezioni di civiltà e di buona politica a noi milanesi. I due, dell’associazione palermitana Addio pizzo, sono venuti a spiegare come si possa contrastare la mafia con operazioni di buona politica, democratica e popolare, come quella rappresentata dalla loro associazione, senza per forza immolarsi sull’ara sacrificale degli Imparato e dei Puglisi.
Addio pizzo nasce nel 2004 da sette ragazzi che vogliono aprire un pub ma non hanno alcuna intenzione di pagare il pizzo alla mafia. Sanno però che non possono agire da soli e che devono essere supportati. Escluso il potere politico di palazzo, spesso colluso con il potere mafioso che dovrebbe contrastare, restano i concittadini palermitani. Smuoverli però non è semplice. Commercianti e imprenditori che sottostanno all’estorsione hanno come primo nemico la paura di perdere i propri clienti: chi non paga è un infame che corre il rischio di essere boicottato. Tuttavia i giovani, nelle loro riunioni semiclandestine, scommettono sul desiderio di riscatto di un intero popolo, e coniano uno slogan di grande impatto: Un intero popolo che paga il pizzo è un popolo senza dignità. Vetrofanie listate a lutto con questa scritta, affisse nella notte del 28 agosto 2004 per tutta Palermo, si appellano all’idea comunitaria di popolo e al riscatto morale di dignità; e riescono a ottenere il risultato sperato: in poco più di un anno i ragazzi (nel frattempo diventati un centinaio) sono in grado di stilare una lista di oltre tremila palermitani disposti ad acquistare presso commercianti che si ribellano alla mafia. Il passo successivo è invitare questi ultimi a non pagare più il pizzo e a farlo pubblicamente, affiggendo sulla porta di ingresso del loro negozio l’adesivo di Addio pizzo. E anche in questo caso l’iniziativa ha successo: segno che la gente quando intercetta davanti a sé buona politica sa reagire in maniera attiva. Del resto, i numeri di oggi parlano da sé: 723 negozi e imprese non pagano più il pizzo, 39 produttori aderiscono al marchio “Certificato Addiopizzo”, 10168 consumatori li sostengono con i loro acquisti, 32 associazioni sul territorio partecipano alla campagna, 176 scuole sono coinvolte nella formazione antiracket, 3546 messaggi di solidarietà sono giunti da tutto il mondo. Un successo che ha consentito all’associazione di dare vita ad altre iniziative (per le quali si rimanda al sito) e che ha spinto don Antonio Anastasi a chiedere ai due giovani di testimoniare la loro esperienza a un’ottantina di persone – quasi tutte giovanissime – convenute la sera del 17. E questi giovani milanesi, che hanno ascoltato con attenzione e partecipazione, hanno imparato che per combattere la mafia occorre partire da una seria presa di coscienza: la mafia (o ‘ndrangheta, come preferiscono chiamarla i nostri politici del nord) esiste anche a Milano e in Lombardia; e per combatterla bisogna conoscere bene il territorio e pianificare azioni – semplici ed efficaci – che diano risposte concrete a chi questo territorio lo vive e su cui lavora tutti i giorni.
Partiamo dalla presa di coscienza. Prima di tutto c’è la cronaca di queste ultime settimane, impietosa: la débâcle della giunta Formigoni, quali che siano gli esiti giudiziari della vicenda Zambetti e la risposta politica che il governatore saprà dare, è una chiara ammissione che la classe dirigente di questa regione fa agli occhi di tutti: le infiltrazioni dell’ ndrangheta ci sono e non sono affatto un caso isolato, tanto che occorre sciogliere tutto l’esecutivo regionale (prima soluzione proposta da Formigoni e Lega) o addirittura indire nuove elezioni. Comunque sia, il problema non è Zambetti ma le collusioni Stato-mafia che le accuse a Zambetti pongono sotto i riflettori. Tuttavia la cronaca politico-giudiziaria non basta e occorre andare oltre. Secondo l’Agenzia Nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata, che riporta dati aggiornati al 3 settembre 2012, i beni sequestrati si concentrano per l’81,06% nelle quattro Regioni Convergenza (Sicilia 43, 26%, Campania 15,01%, Calabria 14,03 e Puglia 8,75%), lasciando al resto del territorio nazionale complessivamente il 18,94%. La Lombardia, con 1069 beni sequestrati, detiene comunque il (poco onorevole) quinto posto della classifica con l’8,61%, poco meno di tutti i beni confiscati nelle altre quindici regioni italiane che complessivamente ammonta a 1282 tra aziende e immobili, pari al 10,33%. La cosa non deve stupire: la malavita va dove c’è denaro, dicono i politici; ma anche dove ci sono amministratori e imprenditori disponibili ad accettare investimenti quantomeno di dubbia provenienza. Occorre quindi accettare che noi lombardi viviamo nella quinta regione più mafiosa d’Italia e che a Milano si concentra il 56,78% dei beni sequestrati alla mafia in tutta la Lombardia. Questi i dati da fatto.
Ma la presa di coscienza non basta, occorre partire da qui per fare altro. Per esempio, cercare di far partire nuove imprese a attività che riciclino gli immobili sequestrati e li restituiscano alla città. Bisogna poi pensare a quali sono le modalità di infiltrazione mafiosa nel tessuto produttivo della nostra città. Partendo dal presupposto che con ogni probabilità non sia il pizzo il problema principale con cui il milanese si trova a dover fare i conti, occorre domandarsi come la criminalità organizzata può fare affari qui da noi e cercare di farle attorno terra bruciata. Se la mafia opera con i guanti bianchi all’interno dei consigli di amministrazione di aziende e banche, e trova interlocutori nelle giunte delle amministrazioni, si deve operare un ferreo controllo delle azioni di queste ultime e provvedere alla loro pubblica denuncia, anche semplicemente scrivendo un articolo al giornale di quartiere o utilizzando la risorsa del web. È necessario operare una mappatura di quelle attività commerciali che più facilmente costituiscono brodo di coltura per attività illegali. Qui a Milano, per esempio, crescono come funghi nuove case da gioco che saranno sicuramente in regola con tutte le licenze comunali, ma che altrettanto certamente sfilacciano il tessuto sociale di una comunità e diventano luoghi di aggregazione di gente persuasa che il denaro lo si procura in tanti modi tranne che lavorando. Bene: quante e dove sono queste case da gioco? A chi appartengono? Quanto fatturano? Occorre poi battersi perché le regole di una collettività siano seguite da tutti, senza eccezioni di religione o etnia, perché deroghe alle leggi consentite ad alcuni e negate ad altri trasformano i diritti in privilegi e sono alla base di malesseri sociali destinati prima o poi a esplodere. L’elenco sarebbe infinito, e per il momento lo chiudiamo qui. A conclusione, un’ultima riflessione su un recente commento pubblicato su la Repubblica in cui Umberto Eco suggeriva di selezionare le proprie frequentazioni mettendo gentilmente alla porta tutti coloro che sono di dubbia moralità: si tratterebbe insomma di isolare chi reputiamo disonesto, vale a dire ribaltare l’ottica del “baciano le mani” all’uomo d’onore per trattarlo per quello che effettivamente è: un uomo disonorevole. Se cominciassimo da qui, da comportarci rettamente isolando chi non fa altrettanto, forse provocheremo il sorrisetto sarcastico di alcuni commentatori de il Giornale (leggere, per credere, qui e qui); ma di sicuro faremmo, per noi e la nostra città, più di quanto facciano quelli che scrivano bene e razzolano male.