Il periodo a cavallo tra maggio e giugno è noto ai più come la stagione dei saggi, non nel senso di “individui presi a esempio per la loro statura di competenze” ma di “rappresentazioni cumulative volte a sancire la fine di un qualcosa con la pubblica dimostrazione che quel qualcosa ha fatto fruttare i soldi dell’iscrizione”. Saggi di danza, di sport e, naturalmente, di musica. Mentre cerco di limitare i danni di un lavoro esageratamente sedentario, per fare un esempio, nella stessa ora e nella palestra accanto un plotone di ragazzine indossa bombette, bastoni e lustrini per muoversi al ritmo di Espana Canì, tanto che se in quella scuola di avviamento alla danza ci fosse mia figlia sarei oltremodo perplesso dalla scelta del brano per il saggio di fine anno. Nel duemila e rotti i generi musicali con cui gratificare gli appetiti di successo dei genitori sono svariati, e il paso doble – ballo di indubbia dignità – risulta superato non poco. Ma la verve di sperimentazione della classe docente cui affidiamo il tempo libero dei nostri bambini è facilmente riscontrabile un po’ ovunque. Proprio ieri sera ho assistito a un’esibizione di una quindicina di alunni di una insegnante di pianoforte che opera sul territorio, una classe composta sia da teneri frugoletti di pochi anni che subiscono lo strumento fino ad adolescenti smaliziati che già in parte lo tengono in pugno e lo usano come tale. Lo strumento musicale è infatti uno strumento come tutti gli altri, non dimentichiamolo. Come un cacciavite, un bisturi, una chiave inglese. Bisogna usarlo a proprio vantaggio secondo l’operazione che si intende portare a termine. Non mi soffermo sulla scarsa cura con cui si insegna ad andare a tempo, che trovo sia altrettanto importante del rispetto l’esecuzione corretta delle note sul pentagramma. Salto tutti i passaggi intermedi fino all’ultimo alunno, il più grande, che ha chiuso la serata suonando due brani. Un pezzo di Ludovico Einaudi, che trovo noioso e inutile tanto quanto Allevi, e un equivalente di Espana Canì per la danza, ovvero “Ballade pour Adeline” di Richard Claydermann, che tradisce evidentemente l’influenza e l’età anagrafica dell’insegnante visto che non vedo come un ragazzino di 14 anni di oggi possa aver scelto la colonna sonora di serate pacchiane su navi da crociera, una melodia da televendita anni 80 quelle con il logo del biscione in bella vista, in basso sullo schermo, roba che nemmeno Augusto Martelli e che nessuno userebbe neppure come accompagnamento per l’oroscopo alla radio. Un’amica, durante l’esecuzione, mi ha fatto notare che la bravura della punta di diamante di quel corso di musica potrebbe aumentare il suo ascendente sulle coetanee, considerando la visione sentimentale della vita di quel pianista in erba sintetizzata in un brano così, in quello che reputo un successo del pianismo commerciale più sterile del dopoguerra. Ho pensato solo che se fossi una ragazza e qualcuno mi dedicasse una canzone di quel tipo potrei rimanere traumatizzata e convertirmi al Death Metal a vita.
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