Pina Bausch è scomparsa. Innovatrice del concetto di teatro, ha reso la danza parte integrante della scena teatrale annientandone subordini e livellando parola, espressione corporea e musica. Considerando questi ultimi come elementi intrinseci e naturalmente integrati all’interno della coreografia, ha iniziato un genere che viene considerato “teatro danza”, definizione forse troppo riduttiva e recintata, poiché la Bausch ha sperimentato il teatro mediante una prospettiva diversa, partendo dall’espressione corporea danzante, andando oltre il movimento, sorpassandolo. Un teatro che si pone come “slancio nel mentre” che cristallizza l’azione. Difatti, durante la sua contemplazione, essa è già mutata in altro agito rappresentativo di un moto dell’anima. Partenza dal sé come analisi antropologica, trasposizione in un’ espressione danzante che si muove e crea mondi narrando con una voce che supera la parola. Il corpo, da strumento meramente manifestante, diventa significante e primo motore “mobile” dei racconti della vita. Sì, perché si è raccontata in ciò che riduttivamente chiamano coreografie; è partita dal particolare permettendo ai suoi osservatori di vivere anche la propria storia individuale. Il corpo, ed è questa la grande innovazione, pian piano scompare, diventa effimero, impalpabile. Ed è in questo la grandezza dell’artista tedesca. Il corpo crea mondi ma diviene invisibile. Ne rimane la narrazione critica, la memoria storica e un sentimento di vissuto altamente lirico nella potenza e nella drammaticità. Una donna, Pina Bausch, che insieme a Peter Brook e Luca Ronconi, rappresenta uno dei nomi più importanti del teatro della seconda metà del novecento.
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