Anno: 2004
Distribuzione: Il Gigante
Durata: 80′
Genere: Documentario
Nazionalità: Italia
Regia: Massimo Domenico D’orzi
Un viaggio attraverso una cultura millenaria affascinante e, per molti versi, ancora misteriosa anche agli occhi degli stessi europei, nonostante la vicinanza fisica con la zona dei Balcani. È questo quello che si propone il documentario di Massimo Domenico D’Orzi, realizzato nel 2004 (ormai quasi dieci anni fa) nelle regioni montuose della Bosnia centrale, alla ricerca di uomini, donne e bambini, volti in definitiva, capaci di esprimere le reali condizioni di vita e i pensieri della comunità di rom kaloperi.
Diversamente da quanto siamo soliti pensare, questa particolare comunità si differenzia dai suoi fratelli nomadi (chiamati cergasi) per una propensione alla stanzialità: le famiglie vivono in case (molto spesso baracche di lamiera, ma pur sempre “immobili”), mandano i loro figli a scuola e svolgono diversi lavori legati alla manualità e all’artigianato. Il film procede alternando immagini della vita quotidiana della comunità ad interviste realizzate ad arte per far emergere la filosofia di vita pacifista che sembra animare i suoi componenti, lasciati liberi di esprimere il proprio pensiero sulla guerra e la Storia, sulle tradizioni legate alle feste e alle credenze popolari, tracciando un quadro dell’etnia rom tra passato, presente e futuro lontana dagli stereotipi ai quali siamo, purtroppo, sempre più spesso abituati. Nella seconda parte del documentario, il regista si concentra principalmente sulla figura di una bambina della comunità, la più piccola tra i protagonisti intervistati, l’Adisa del titolo, mettendola a confronto con la figura dell’anziana nonna.In definitiva, Adisa o la storia dei mille anni si rivela un documento senza dubbio interessante per la sua capacità di far luce su usi e costumi “insospettabili” di un’etnia troppo generalmente considerata solo per la sua propensione al nomadismo e quasi sempre capro espiatorio di fatti e misfatti che valicano i confini della legalità. Tuttavia la visione di questo documento è a volte appesantita dal contrasto insistito, certamente voluto, tra momenti di racconto attraverso le parole e le testimonianze dirette dei componenti della comunità e il racconto per immagini attraverso tempi lunghi, anzi lunghissimi, quei tempi morti privilegiati dal regista e che senza dubbio sono in grado, dal punto di vista antropologico, di rivelarci molto dell’etnia protagonista del film ma che inevitabilmente rallentano e, addirittura, spezzano quel ritmo considerato elemento minimo sufficiente per mantenere a livelli accettabili l’attenzione dello spettatore. E l’onnipresente suono della fisarmonica di Hadzovic Ruzdija di certo non aiuta, risultando in fin dei conti un elemento più disturbante che di accompagnamento.
Federico Larosa