Prima regola di prudenza dello scrittore: esaminare ogni testo, ogni brano, ogni periodo e chiedersi se il motivo centrale emerge con sufficiente chiarezza. Uno è talmente preso da quello che vuole dire, che si lascia trasportare senza riflettere: è troppo vicino all’intenzione, è troppo “nei suoi pensieri”, e dimentica di dire quello che vuole.
Non c’è correzione, per quanto marginale o insignificante, che non valga la pena di effettuare. Di cento correzioni, ognuna può sembrare meschina e pedante; insieme, possono determinare un nuovo livello del testo.
Non essere mai avari nelle cancellature. La lunghezza di un testo non conta, e il timore di non aver scritto abbastanza è puerile. Nulla va ritenuto degno di esistere perché c’è già, perché è già stato scritto. Proposizioni che formulano diversamente lo stesso pensiero, non sono spesso che tentativi di afferrare qualcosa di cui l’autore non è ancora in possesso. In questo caso bisogna scegliere la formulazione migliore ed elaborarla ulteriormente. La tecnica letteraria impone di rinunciare anche a pensieri fecondi, se la costruzione lo richiede. I pensieri soppressi contribuiscono alla sua forza e alla sua ricchezza. Come a tavola, non bisogna inghiottire l’ultimo boccone, o vuotare il bicchiere fino in fondo. Altrimenti ci si rende sospetti di povertà.
Chi vuol evitare i clichés, non deve limitarsi alle singole parole, se non vuol cadere nella civetteria volgare. (…) La parola singola di rado è banale: anche nella musica il singolo suono non si presta al commercio al minuto. I clichés più detestabili sono combinazioni di parole del genere di quelle infilzate da Karl Kraus: chiaro e tondo, ora e sempre, per la vita e per la morte. In essi, se così si può dire, ristagna il pigro fiume della lingua stantia, mentre lo scrittore, con la precisione dell’espressione, dovrebbe opporre quelle resistenza che sono necessarie perché emerga l’oggetto. E questo non vale solo per singole locuzioni, ma per intere struttura formali, se un dialettico, per esempio, sottolineasse ogni volta l’inversione del pensiero con un “ma”, lo schema letterario confuterebbe l’intenzione antischematica della meditazione.
(…) E’ doveroso sciogliere difficoltà che derivano soltanto dalla facilità d’intendersi con se stessi. Tra la volontà di scrivere serrato e adeguato alla profondità dell’oggetto, la tentazione dell’eccentrico e la sciatteria pretenziosa, non è sempre facile distinguere: una precisione diffidente è, in ogni caso, salutare. (…)
Quando il lavoro è finito, breve o lungo che sia, anche le minime obbiezioni – indipendentemente dal rilievo con cui si annunciano – vanno prese estremamente sul serio. La presa di possesso affettiva del testo e la vanità tendono a minimizzare ogni scrupolo.
(…) Limitazioni e revoche non sono strumenti di esposizione della dialettica. La prudenza che vieta di spingersi troppo oltre in una singola proposizione, è, per lo più, l’agente del controllo sociale, e cioè dell’istupidimento.
(…) Lo scrittore non deve accondiscendere alla distinzione tra espressione bella ed espressione adeguata. Non deve credere al critico premuroso che la formula, né tollerarla presso di sé. Quando gli è riuscito di dire tutto quel che voleva dire, ciò che ha scritto è bello.
(…) I testi elaborati come si convine sono come ragnatele: fitti, concentrici, trasparenti, solidi e ben connessi. Essi attirano a sé tutto ciò che si aggira nei dintorni. Metafore che li attraversano per caso, diventano una preda nutriente.
(…) Lo scrittore si dispone nel proprio testo come a casa propria. Come crea disordine e confusione con i figli, i libri, le matite e le cartelle che si porta dietro da una stanza all’altra, così fa anche, in un certo modo, coi suoi pensieri. Essi diventano, per lui, come mobili o suppellettili domestiche, su cui prende posto, si sente a proprio agio o, viceversa, va su tutte le furie. Li carezza delicatamente, li consuma, li mette a soqquadro, li sposta, li rovina. Per chi non ha più patria, anche e proprio lo scrivere può diventare una sorta di abitazione.
Theodor W. Adorno (da Minima moralia)