"Adriano Olivetti, un Italiano Pericoloso per il Potere"

Da Risveglioedizioni
Un uomo fuori dagli schemi, un imprenditore illuminato, un politico che credeva nei valori umani. Chi era Adriano Olivetti? Sicuramente una persona speciale, di fronte alla quale è legittimo chiedersi: ''si può essere industriali e rivoluzionari?''

A porre la domanda e a raccontare la sua storia è ora il giornalista e scrittore Valerio Ochetto in 'Adriano Olivetti. La biografia' pubblicata dalle Edizioni di Comunità che stanno riproponendo con successo tutte le opere di Olivetti. Autore di approfondimenti culturali per la TV, in passato responsabile del servizio Storia della Rai, Ochetto segue uno schema abbastanza classico, partendo dalla nascita di Adriano l'11 aprile 1901 sulla colina di Monte Navale, quasi in vista di Ivrea, per dare voce alle avventure di un innovatore che amava l'architettura e l'urbanistica e che ha messo al centro della sua vita il nuovo modo di vivere la fabbrica. Fino alla sua morte nel febbraio del 1960 in un vagone del direttissimo per Losanna. ''La luce della verità, usava dirmi mio padre, risplende soltanto negli atti, non nelle parole'' ricordava Adriano Olivetti in una citazione ora in apertura della biografia. E proprio l'agire è uno degli elementi centrali della vita di Olivetti, a partire dal fatto che non amava neppure parlare di sé, ''ne aveva quasi pudore, e rimaneva indecifrabile anche ai più vicini'' sottolinea Ochetto. Intrecciando il racconto familiare con la ricostruzione delle iniziative imprenditoriali, dove il profitto è un mezzo e non un fine, Ochetto mostra come Olivetti, partendo dalla fabbrica sia arrivato a un progetto di rinnovamento integrale della società.'' Adriano - racconta l'autore del libro - vede la fabbrica come un organismo vivente, che ha una infanzia, una giovinezza, una maturità, e che volgerebbe al tramonto se non si trasformasse continuamente in qualcosa di nuovo''. Da essa viene lo stimolo per una riforma globale. ''Il fine - spiega - e' molto ambizioso: conciliare l'uomo e la macchina, il problema sul quale si sono cimentati dalla prima rivoluzione industriale in poi utopisti, ideologi, politici''. Non c'è una ricetta ma l'idea proposta da Olivetti per superare la contrapposizione fra capitalismo privato e collettivismo è ''socializzare senza statizzare''. Quello che colpisce è che i viaggi americani, l'impegno antifascista, i successi internazionali, l'intuizione dell'elettronica che hanno portato l'Italia all'avanguardia non hanno mai fatto perdere ad Adriano Olivetti, anzi hanno rafforzato, la sua convinzione dell'importanza dei valori culturali, del rispetto della dignità della persona e del progresso come strumento per la costruzione di un mondo spiritualmente più elevato. Nei bagagli che Adriano Olivetti aveva con sè il giorno della morte, avvenuta ad Aigle, dove il treno su cui viaggiava si è fermato in attesa di soccorsi che saranno inutili, viene trovata, racconta l'autore della biografia, una copia di 'Città dell'uomo', la raccolta dei suoi più recenti scritti e discorsi. E secondo una voce, diffusa fra i comunitari, ma non sicura, c'è ''anche un appunto - racconta Ochetto - che riguarda quello che è stato un suo caposaldo e il progetto più contrastato: la fondazione proprietaria, da creare trasferendo parte della proprietà ai lavoratori''. Frutto di anni di ricerche in archivi pubblici e privati, con la raccolta anche di testimonianze dirette, la biografia può essere letta seguendo diversi piani ma come ammette l'autore ''c'è un nucleo della personalità umana irriducibile a ogni ricerca, dove questa confina con il proprio mistero'' e nel caso di Adriano Olivetti è ancora più vero. Entrato in azienda negli anni Venti come semplice operaio, il primogenito di Camillo, Adriano Olivetti, già nel 1932 ne viene nominato direttore generale.L’azienda, nata nel 1908 a poche decine di chilometri da Torino, a Ivrea, è la prima fabbrica nazionale di macchine da scrivere, destinata a diventare leader nel settore dei materiali per ufficio e poi in strumenti elettronici all’avanguardia, dalle telescriventi alle prime macchine da calcolo meccaniche. Dopo la seconda guerra mondiale e la morte del padre, avvenuta nel 1943, Adriano assume il controllo dell’azienda, che nel frattempo è sempre più impregnata del carattere del suo nuovo proprietario e fondatore, nel 1948, del Movimento Comunità. L’Olivetti – nelle parole del tesoriere Mario Caglieris – è “una fabbrica fondata su un preciso codice morale, per il quale il profitto viene destinato. prima di tutto agli investimenti, poi alle retribuzioni e ai servizi sociali, in ultimo agli azionisti con il vincolo di non creare mai disoccupazione”. La scommessa, professionale e scientifica, di Adriano Olivetti non si limita a confrontarsi con la concorrenza di quegli scienziati che, negli anni Cinquanta, stanno gettando le basi dell’informatica moderna, ma si intreccia anche con le dinamiche della Guerra Fredda. A cominciare dalla nomina del giovane ricercatore italo-cinese Mario Tchou alla guida del costituendo Laboratorio di ricerche elettroniche di Ivrea, nel 1954, poi trasferito a Barbaricina, vicino Pisa. L’intento del Laboratorio è quello di gettare le basi progettuali per creare il primo calcolatore elettronico da destinare al mercato. Nel 1959 è pronto Elea 9003 – acronimo di Elaboratore elettronico automatico – terzo prototipo dopo Elea 9001 ed Elea 9002, nonché il primo calcolatore a transistor commerciale della storia. Con l’ingresso ufficiale nel campo dell’informatica, l’Italia entra nel ristretto novero dei Paesi industriali in possesso di mezzi e conoscenze definite “sensibili”, ma la politica italiana – cerimonie a parte – non sembra affatto interessata a sostenere e proteggere la nascente industria informatica. L’Olivetti non riceve aiuti di Stato ed è anzi lei stessa a portare le istituzioni nazionali a conoscenza delle potenzialità nel campo informatico, mentre i concorrenti stranieri, ad esempio negli Stati Uniti, godono di somme ingenti stanziate dal governo, soprattutto a scopi militari. In questo scenario, due eventi tragici danno una svolta al destino dell’informatica italiana. Il primo è la morte d’infarto, nel febbraio 1960, di Adriano Olivetti. Il secondo, nel novembre 1961, è l’incidente stradale in cui il pioniere dell’informatica italiana, Mario Tchou, muore sul colpo. Secondo Giuseppe Rao, funzionario diplomatico – una delle rare fonti sui movimenti dell’Olivetti nel campo dell’elettronica – numerosi elementi lasciano supporre l’esistenza di un complotto per uccidere Tchou. L’ipotesi è che l’aver affidato ad un “muso giallo” il compito di condurre l’Italia nei segreti dello strategico mondo dell’informatica avrebbe destato le preoccupazioni di chi, in quel momento storico, aveva il maggior interesse a monopolizzarlo o perlomeno a primeggiarvi, gli Stati Uniti. E, fra l’altro, Mario Tchou era stato contattato dall’ambasciata cinese perché anche Pechino iniziava ad avviare studi sui calcolatori. A prescindere da qualunque ipotesi complottista, Rao sottolinea comunque che gli Stati Uniti avevano un enorme interesse a tenere fuori l’Italia nel campo delle ricerche sui calcolatori, in quanto Paese confinante con l’Impero del Male e contenitore del più grande partito comunista d’Occidente. Il modello di Adriano Olivetti non aveva avuto sostenitori nel mondo politico né, tantomeno, sostegno da parte di Confindustria, che anzi aveva mal digerito il voto dell’onorevole Olivetti, determinante per la costituzione del primo governo di centrosinistra. Franco Filippazzi, collaboratore di Tchou al Laboratorio, spiega che esso “non era di sinistra e non era di destra, o forse attingeva da entrambi gli orientamenti, ma di certo si trattava di un modello di capitalismo (…) certamente in controtendenza ai valori di un’ampia comunità interna alla DC, solidale invece ai valori ‘atlantici’”. Fatto sta che la morte di Adriano e la crisi economica seguita al boom degli anni Cinquanta portano l’Olivetti a una difficile situazione finanziaria e si fa quindi avanti un gruppo misto pubblico-privato, il cosiddetto “gruppo d’intervento” formato da FIAT, Pirelli, Mediobanca, etc. che entra nel capitale dell’azienda di Ivrea. Nell’aprile 1964, in sede di assemblea degli azionisti FIAT, l’allora presidente Vittorio Valletta rilascia una famosa dichiarazione: l’Olivetti “è strutturalmente solida e potrà superare senza grosse difficoltà il momento critico. Sul suo futuro pende però una minaccia, un neo da estirpare: l’essersi inserita nel settore elettronico, per il quale occorrono investimenti che nessuna azienda italiana può affrontare”. Gli ingegneri che avevano costruito Elea 9003 confluiscono in un nuovo organismo, la Deo, che nel 1965, su decisione del gruppo d’intervento, viene venduto per il 75% alla multinazionale statunitense General Electric. Con tale vendita – o svendita, per dirla con le parole di Rao – la politica industriale italiana cede definitivamente agli Stati Uniti il primato nella ricerca scientifica applicata all’informatica. Coronato nel 1968 con la cessione agli americani della restante quota del 25%. Pier Giorgio Perotto, altro collaboratore di Tchou e poi inventore della “Programma 101” (P101), il primo personal computer della storia, meglio conosciuta come “Perottina”, ha scritto che il “neo” fu estirpato in tragica e assurda coincidenza con l’avvio della rivoluzione elettronica mondiale. Luciano Gallino, sociologo di fama, già dirigente di Olivetti, sostiene che “l’affermazione di Valletta fu fatta senza alcuna valutazione critica di politica economica. Non fu redatto alcuno studio, né è mai esistita traccia di una relazione di bilancio sulla Deo: la scelta di tagliare il settore informatico fu giustificata semplicemente dal prevalere di una considerazione personale di Valletta e di qualche collega a cui il resto del gruppo d’intervento non fece obiezioni”. E, secondo Giuseppe Rao, è verosimile che sulla vendita alla General Electric ci siano state pressioni direttamente da parte degli Stati Uniti. Con questi ultimi, del resto, le aziende del gruppo d’intervento avevano, se non un debito, quantomeno un vincolo solidale, dato che esse erano state le principali beneficiarie degli aiuti economici erogati in base al Piano Marshall nel dopoguerra. Pressioni esplicite da parte americana, affinché si (s)vendesse Deo e l’Italia non potenziasse il suo sapere nel nuovo strategico settore, ammesse anche dal tesoriere di Olivetti Mario Caglieris, il quale – interpellato per conoscere i dettagli dell’affare – si è rifiutato di parlare della vicenda. [Le informazioni contenute nel presente articolo sono tratte da “Il miracolo scippato. Le quattro occasioni sprecate della scienza italiana negli anni sessanta”, di Marco Pivato, Donzelli editore] Fonte:  www.ansa.it http://byebyeunclesam.wordpress.com

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