«Certo, sono dispiaciuto per la morte di questo ragazzo. Ma non sono d’accordo con una certa esaltazione retorica, non facciamone degli eroi. Magari poi si scopre che un soldato è morto per una mina fabbricata in Italia… Quelle non sono missioni di pace. I nostri soldati vanno lì con le armi…».
L’ennesimo militare italiano morto in Affaganistàn, la settimana scorsa, stava per cadere nel dimenticatoio come tutti gli altri, accompagnato dalla solita sfilata di cordoglio che commuove gli animi e rende onore al caduto.
La retorica. Il napalm dei nostri cervelli.
Stavolta, però, qualcosa nel meccanismo non ha funzionato. Si è inceppato. Una voce importante, per ciò che rappresenta e per il ruolo che riveste nell’istituzione a cui appartiene.
Il vescovo di Padova, don Antonio Mattiazzo, ha pronunciato in pubblico le parole sopracitate. Parole che, a mio avviso, esprimono in modo razionale la realtà dell’occupazione afghana (anche se non completamente) e il pensiero di molti italiani. Forse la maggior parte.
Per quanto mi sforzi, non mi torna in mente una presa di posizione così netta da parte di membri dell’establishment (ma forse è l’effetto napalm), dato che solo le loro opinioni possono avere spazio nei media principali.
La sinistra ha mai detto chiaramente perché non dovremmo essere lì? Non mi pare. Non così.
Non facciamone degli eroi. Non sono missioni di pace. I nostri soldati vanno lì armati…. E per soldi, aggiungo io.
Lauti guadagni. Notevoli compensi. Alcuni mesi di missione e si torna a casa, con il mutuo coperto o quasi.
Il rischio di rimanerci è molto basso. Trentasei militari morti in poco meno di dieci anni.
Se fai il rappresentante, macinando centinaia di chilometri al giorno in autostrada, rischi la vita molto ma molto di più, per guadagnare molto ma molto di meno.
Il ministro della difesa (le dita si rifiutano di digitare la sequanza di lettere che compongono il cognome, per quanto mi disgusta), con il suo consueto stile, si è scagliato contro il vescovo, arrivando a dargli dell’ignorante.
Dall’alto della sua onestà intellettuale, invece, il ministro al solito mantra della missione di pace aveva aggiunto ripetutemente la parola stabilità: missione di pace e stabilità per l’Affaganistàn. Stabilità.
Con che coraggio, dopo aver portato la morte e ulteriore miseria in quel Paese, vogliamo dargli stabilità. Forse la stessa stabilità che abbiamo dato all’Iraq. Ma lasciamo perdere.
Sempre per onestà intellettuale, quel ministro definisce i guerriglieri afghani degli insorti. Loro, che sono a casa loro e combattono per mantenere una propria indipendenza, dato che il governo è composto da fantocci, sarebbero gli insorti. Siamo all’assurdo, al paradossale. Siamo allo sconvogimento della semantica. Siamo alle solite.
Travolti come siamo dai problemi personali dei nostri governanti, dimentichiamo che siamo complici di questi misfatti. Certo, se riuscissimo ad avere almeno qui una parvenza di stabilità, potremmo pensare anche a risolvere le altre questioni.
Nel frattempo, proviamo a dire le cose come stanno. A definire questa guerra per quella che è: un’occupazione violenta contro ogni principio di diritto internazionale, oltre che contro la nostra Costituzione. A dire perchè i nostri militari continuano a chiedere di partire. E non è per difendere la patria.
Ma noi lo sappiamo già, lo abbiamo sempre saputo.
C’è qualcuno, lì a sinistra?