Afghanistan, si fa presto a dire democrazia

Creato il 15 aprile 2014 da Luca Troiano @LucaTroianoGPM

Sabato 5 aprile si è votato in Afghanistan per eleggere il nuovo presidente che andrà a sostituire Hamid Karzai, eletto per la prima volta nel 2004 ma di fatto in carica dalla fine del 2001, dopo la caduta del regime dei talebani. La partecipazione al voto è stata molto bassa nelle zone rurali, dominate dai talebani. C’è stata una grande affluenza, invece, nelle città, dove gli aventi diritto si sono recati in massa alle urne, tanto che molti seggi hanno dovuto essere urgentemente riforniti di schede vista l’insufficienza di quelle già predisposte.

La grande attesa che circonda le elezioni presidenziali afghane è dovuta principalmente al fatto che si tratterà del primo esperimento di passaggio dei poteri da un presidente all’altro tramite elezioni.  Le presidenziali in Afghanistan sono considerate tra le elezioni più importanti del 2014: il loro esito non è importante solo per la politica afghana, ma anche per gli effetti che potrebbero prodursi sui soldati statunitensi ancora sul territorio afghano – che dovrebbero completare il ritiro entro la fine dell’anno – e più in generale su alcuni temi di importanza mondiale, come la lotta al terrorismo. 

Se paragonate a quelle del 2009, queste elezioni sono state un successo. Tuttavia si è votato in un clima di alta tensione, dovuto all’omicidio della fotografa tedesca Anja Niederghaus, già Premio Pulitzer, e alle minacce dei talebani. In tutto il paese si sono verificati episodi di violenza: un seggio su dieci non è stato aperto per motivi di sicurezza, nonostante fossero stati dispiegati circa 200 mila soldati per garantire la regolarità delle operazioni. Inoltre sono già 162 i ricorsi presentati per denunciare varie irregolarità nello svolgimento delle votazioni: riguardano il mancato accesso ai seggi, la mancanza di schede, l’esistenza di schede false e anche la denuncia di pressioni operate dai leader politici locali. In realtà le denunce di irregolarità sono state oltre mille.

Erano circa 300 le donne candidate per ottenere un seggio ai consigli provinciali, anche in zone dove la presenza dei talebani è molto forte. Negli ultimi mesi, inoltre, le mogli dei candidati nazionali più importanti hanno partecipato attivamente ai comizi elettorali dei rispettivi mariti. Dall’altro lato, però, le donne registrate per votare erano appena circa il 35% di tutte le donne afghane con diritto di voto, praticamente la stessa percentuale delle ultime elezioni.

Undici i candidati partecipanti. E’ quasi sicuro che vi sarà un ballottaggio: Tre sono i favoriti per i due posti disponibili: Abdullah Abdullah, secondo nelle elezioni del 2009, che dovrebbe ottenere i voti dei non-pashtun del nord; Ashraf Ghani, economista, ex ministro delle Finanze dal 2002 al 2004 e già funzionario della Banca Mondiale, di etnia pashtun e uno dei più accaniti sostenitori dell’accordo di sicurezza bilaterale con gli Stati Uniti; e Zalmai Rassoul, ex Ministro degli Esteri, che sembra essere il più fidato alleato di Karzai. tre candidati hanno programmi quasi eguali. Tutti e tre hanno come obiettivo prioritario la riconciliazione nazionale e il rispetto delle minoranze. L’esito del voto sarà quindi grandemente influenzato dalle affiliazioni etniche e tribali. Ma quanto è possibile, al momento, una riconciliazione nazionale? Questa presuppone comunque che il nuovo presidente – al tempo stesso capo di Stato e di governo – goda di una legittimazione sostanziale tale da farsi obbedire dalle forze di sicurezza, che in ogni caso rimarranno il pilastro portante dell’unità e stabilità del Paese. 

La commissione elettorale ha iniziato lunedì 7 le operazioni di conteggio delle preferenze: un processo lungo che non terminerà prima del 24 Aprile, quando verrà data notizia dei risultati parziali, i risultati definitivi verranno annunciati solo il 14 Maggio – nel caso fosse necessario (nessuno dei candidati raggiunge il 50% dei consensi) si voterebbe per il ballottaggio il 28 Maggio, quindi la comunicazione dell’ufficialità dei risultati non si avrebbe prima di luglio.

Quello di questi giorni è il primo pacifico trasferimento di potere nel paese da un leader a un altro. Si chiude così la controversa presidenza di Hamid Karzai, ma non la sua esperienza politica. Secondo il New York Times, Karzai continuerà a condizionare pesantemente la politica afghana, grazie anche a una serie di restrizioni e regole che lo stesso Karzai ha imposto al processo elettorale. Per esempio ha influenzato il comitato elettorale nell’approvazione dei candidati alla presidenza (e ha dissuaso alcuni di loro a non presentare o ritirare la candidatura), ha scelto personalmente i funzionari che decideranno sulle dispute elettorali e ha finanziato con decine di migliaia di dollari due dei tre più importanti candidati, assicurandosi in pratica che almeno uno dei due passi al secondo turno e se la giochi al ballottaggio.

Karzai si è assicurato il sostegno del governo statunitense, con modalità non sempre chiare: nell’aprile del 2013, per esempio, un’inchiesta del New York Times aveva dimostrato come la CIA avesse consegnato all’ufficio di Karzai, a cadenza mensile e dal 2002, quello che gli afghani hanno chiamato “denaro fantasma”: denaro di cui non si conosceva ufficialmente né la provenienza né la destinazione, ma che probabilmente aveva finito per alimentare il diffusissimo sistema di corruzione che domina da molti anni la politica e l’economia del Paese. Negli ultimi tempi, ormai completamente delegittimato dalla sua inefficienza e corruzione, ha più volte accusato gli USA di aver promosso un complotto per indebolire il suo governo. Ha rifiutatodi firmare l’accordo sullo “stato delle forze”, senza il quale gli USA e i loro alleati si ritireranno completamente dall’Afghanistan. Per indispettire ulteriormente gli USA, dimostrare la sua indipendenza e ottenere l’appoggio di Mosca, da alcuni anni il governo di Karzai ha favorito il progressivo ritorno della Russia nel paese, ripristinando progetti e ristrutturando infrastrutture risalenti agli anni dell’occupazione sovietica dell’Afghanistan. Di recente ha persino riconosciuto l’annessione della Crimea a Mosca, come solo la Siria e il Venezuela hanno finora fatto.

In conclusione, in occasioni come queste si corre un rischio: come nota Limes, permettere all’entusiastica narrazione occidentale di gettare una luce interamente positiva su questo evento, servendo agli spettatori su un piatto d’argento la falsa equazione “elezioni=democrazia”. Si è parlato di alta affluenza, ma di fatto sono state distribuite 21 milioni di schede elettorali su soli 12 milioni di aventi diritto al voto, e il rischio di brogli è sempre presente. Inoltre, l’etnicismo è ancora un fattore determinante nel voto. se gli hazara hanno votatoe alle spalle Abdullah e gli uzbeki Ghani è perché questi due candidati si presentavano con l’appoggio di due warlord come Mohammad Mohaqiq (il primo) e Abdurrashid Dostum (il secondo). Figure che tuttora influenzano il panorama politico afghano. Infine, si è scritto che solo 211 seggi sui 6423 sono stati chiusi per timore di attentati, ma va precisato che, mesi fa, la commissione elettorale aveva inizialmente previsto 7168 seggi: ciò significa che ben 956 postazioni non sono state aperte, pari al 13% del totale.

Lo scenario più ottimistico, è che venga eletto un presidente sufficientemente forte per poter firmare l’Accordo di Sicurezza - indispensabile se si vuole quantomeno cercare di evitare che i Talebani riconquistino pezzo per pezzo le regioni “liberate” durante la guerra – inizialmente con gli USA, che sarà esteso a tutti i paesi che hanno deciso di restare in Afghanistan con propri militari nel post-2014, a ritiro avvenuto delle truppe di combattimento. Rimarrebbero da 10 a 12.000 soldati, di cui all’incirca 800 italiani. Quello più inquietante – e tutt’altro che improbabile – parla di una guerra civile fra i vari “signori della guerra”, sostenuti da “padrini” esterni. Ci sarebbe anche un terzo scenario, consistente nella una vittoria completa dei Talebani, sostenuti dal Pakistan e dall’Arabia Saudita. La pacificazione dell’Afghanistan non è ancora vicina come lo sterile rito elettorale vorrebbe farci sperare.


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