Afghanistan: tra speranza e disperazione

Creato il 20 novembre 2012 da Geopoliticarivista @GeopoliticaR

L’attuale presenza militare in Afghanistan guidata dagli Stati Uniti ha compiuto 11 anni il 7 ottobre 2012. Quest’impegno militare esercitato da una forza straniera è stato il più longevo nella storia dell’Afghanistan, distanziandosi di ben 32 mesi dall’intervento sovietico. È stato anche l’impegno militare più lungo per gli Stati Uniti, tanto da aver sorpassato la guerra del Vietnam, costando all’incirca 100 miliardi di dollari annui all’erario americano, una cifra quasi sei volte maggiore del prodotto nazionale lordo afghano che si aggira intorno ai 18 miliardi. Nonostante questi numeri, la situazione in Afghanistan rimane fragile e apparentemente senza vincitori.
L’inverno 2012 si sta avvicinando e con esso si sta portando a termine la campagna estiva in Afghanistan. Già 30 mila unità statunitensi sono state congedate così come previsto dal piano di dispiegamento. Nel dicembre di quest’anno è anche previsto il ritiro delle truppe francesi, mentre il 2013 sarà l’anno in cui è pianificato il ritiro graduale di tutte le altre unità militari straniere di combattimento.

Per ciò che concerne gli sforzi impiegati per lo sviluppo e l’implementazione delle competenze delle forze di sicurezza nazionali afgane (Afghan National Security Forces – ANSF) si sono verificati non pochi impedimenti. Anche se le ANSF sono state in grado si raggiungere l’obiettivo di 352 mila unità prefissato per ottobre 2012, la loro efficienza è alquanto dubbia. Come si evince dall’ultima valutazione avvenuta in aprile solo 13 battaglioni, su un totale di 179, hanno raggiunto il grado militare CM-1 (Construction Mechanic First Class, US Navy Rating) che indica la capacità delle Forze di poter condurre operazioni militari indipendentemente. A preoccupare ancora di più è la sospensione da parte degli Stati Uniti e degli alleati occidentali dei corsi di formazione superiore nonostante l’aumento degli attacchi “green on blue”, ovvero gli attacchi alla NATO da parte di forze afghane, succedutesi questa estate.

Già 54 soldati internazionali sono stati uccisi dall’inizio di quest’anno in incidenti come questi. Gli attacchi di questo genere creano ovviamente una situazione insostenibile che sfocia in un grave deficit di fiducia tra le parti. Tutto ciò ha fatto sì che le truppe dell’ISAF abbiano ricevuto l’odine di “guardarsi le spalle”, attraverso l’istituzione di “guardian angels”, dei veri e propri “angeli custodi” a protezione delle forze NATO. Quest’anno però è stato anche testimone degli attacchi “Green on Green” in cui le stesse truppe afghane hanno commesso attacchi tra di loro uccidendo i propri compagni, un fratricidio: già 53 sono morti in 35 incidenti diversi solo quest’anno. I Talebani d’altro canto resistono. Sebbene le forze internazionali siano state capaci d’intaccare l’influenza dei Talebani nel cuore del loro territorio, ovvero Helmand e Kandahar, questa però si è estesa altrove nelle zone settentrionali ed occidentali del Paese. La loro capacità di compiere continui attacchi rimane, non è stata affievolita, anzi i Talebani sono stati capaci di penetrare senza ostacoli a Kabul, considerata una roccaforte. I multipli attacchi ai quartieri diplomatici di Kabul cominciati lo scorso 15 aprile, che hanno dato inizio all’offensiva estiva, quelli del 2 maggio durante la visita a sorpresa di Obama, del Lake Resort alla periferia di Kabul il 22 giugno, eccetera, lo hanno dimostrato.

I temi della governance come la corruzione o la mancanza di servizi pubblici e sicurezza che continuano a riguardare l’amministrazione di Karzai, rimangono tra le maggiori preoccupazioni. Le dimissioni dei ministri della difesa e degli interni ad agosto hanno inoltre alimentato le voci su probabili lotte intestine all’interno dell’amministrazione. L’assassinio di governatori, capi di polizia distrettuali e provinciali, membri dell’Alto consiglio per la pace inclusi il presidente Burhanuddin Rabbani, nel settembre del 2011, e Arsala Rahmani, maggio 2012, hanno ancor di più accresciuto questo senso di insicurezza ed instabilità. Per ciò che riguarda la terza fase di transizione annunciata a maggio di quest’anno, è risultato che più di metà dell’Afghanistan e più di due terzi della popolazione fossero sotto il controllo del governo nazionale. Incluse le roccaforti talebane ad Helmand, a Kandahar e nelle province orientali, che hanno sopportato il peso degli attacchi talebani durante lo scorso anno. Anche se ci sono state numerose cerimonie per segnalare il passaggio all’amministrazione nazionale, ci sono pochissime aree che sono veramente sotto il controllo del governo di Kabul.

Malgrado lo scoramento e la disperazione, sono stati registrati in Afghanistan degli sviluppi notevoli dal 2001, soprattutto dopo il 2007. Nel settore dell’educazione e in quello sanitario sono stati compiuti passi da gigante. Il commercio si è moltiplicato, si è rinvenuta la ricchezza mineraria e del petrolio e, grazie ad internet e alle nuove tecnologie, è accresciuta la consapevolezza di ciò tra la popolazione. C’è un grandissimo “youth bulge” (fascia di popolazione tra i 15-29 anni che supera il 20%) e questa gioventù sta aspirando a cose migliori nella vita che non la guerra civile. Sempre di più si vedono donne in luoghi pubblici ed aumenta la loro partecipazione in tutti i settori della vita. Secondo uno studio, il Parlamento afgano ha oggi il maggior numero di donne nell’apparato legislativo a confronto con altri paesi della regione, contando 69 parlamentari che occupano il 28% dei posti totali; un numero questo che supera l’India (60 parlamentari donne, 11%). Una delle provincie, Bamyan, ha persino una donna come governatrice, una situazione che solo alcuni anni fa era impensabile.

Altri indicatori economici e sociali segnalano una direzione positiva. I servizi sanitari sono migliorati notevolmente come riflette un report di Save the Children’s Mothers’ Index. L’indice di mortalità infantile si attesta a 106 morti su 1000 nati, molto meglio di 257, risalente agli anni novanta. Il numero di scuole è aumentato a 13 mila, tra le quali 2 mila femminili. Il numero dei bambini che si recano a scuola è di 7,1 milioni su una popolazione totale di 26,5 milioni di persone. Durante il regime dei Talebani non era permesso alle bambine frequentare le scuole, ma al giorno d’oggi si stima che ne vadano 2,7 milioni. Il numero delle Università ha raggiunto le 24 unità e 64 mila ragazzi vi hanno studiato grazie all’insegnamento di 3 mila docenti professionisti. Nel 2001 c’ero solo l’Ariana Afghan Airlines mentre oggi sono otto le compagnie di volo straniere che operano dall’Afghanistan ed altre s’installeranno nei prossimi anni. A differenza del riconoscimento del regime Talebano, che in passato avevano dato solamente tre Paesi (Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Pakistan), a Kabul oggi ci 40 rappresentanze diplomatiche ed altrettante afghane si trovano all’estero. Questi e molti altri indicatori sociali ed economici contribuiscono a dar speranza agli afghani.

È quasi terminato il 2012 e agli afghani rimane solo poco più di anno prima che la missione internazionale volga al termine. Come gli afghani, così il mondo guarda all’alba del 1° gennaio 2015, ma ci sono degli aspetti che risaltano e devono essere riconosciuti sia dagli afghani che dalla comunità internazionale. Spesso quando si discute di Afghanistan ci si dimentica che il Paese è un mosaico di etnie, religioni, fazioni tribali, ciascuna con il suo sostegno interno o esterno. Insieme, queste “tesserine” del mosaico compongono l’immagine di ciò che è l’Afghanistan. Tuttavia questo mosaico è debolmente tenuto insieme dal governo centrale. Ogni tentativo atto a rafforzare il ruolo e l’influenza di quest’ultimo o di una delle fazioni mette in discussione l’equilibrio tra le diverse componenti del Paese, minacciando l’intero mosaico, provocando l’intervento di uno o più attori esterni ad intervenire apertamente o segretamente. Per questa ragione un’effettiva strategia per l’Afghanistan potrebbe essere quella che incoraggi la stabilizzazione del mosaico interno e non rimodelli o sconvolga il suo precario equilibrio. Di conseguenza il potere condiviso tra il governo centralizzato e le moltitudini di fazioni interne non è solamente un espediente, ma un imperativo.

D’altronde l’Afghanistan non può essere trasformato in un Stato moderno per il 2014. È un processo che richiede tempi lunghi e conta innumerevoli ostacoli. Il fenomeno talebano non può essere spazzato via dalla mappa dell’Afghanistan, ma in qualche modo sarà necessario integrare i Talebani nella politica, nella società e forse anche all’interno del governo nazionale. Il fenomeno talebano non è più monolitico, coeso ed influente come lo è stato negli anni novanta. Vengono riportate frequenti scissioni a livello di leadership così come il malcontento tra piccoli o medi quadri. Anche il Mullah Omar in occasione del tradizionale discorso dell’Eid ha pronunciato frasi in favore della conciliazione. È tuttavia impensabile che oggi i Talebani possano guidare il Paese come durante gli anni novanta.
Gli afghani devono cominciare ad imparare ad accettare la geografia del Paese. A causa della sua posizione geostrategica nella regione, le influenze esterne rimarranno e dev’essere trovata una maniera in cui guidare l’Afghanistan.

I pashtun non possono esseri visti come i soli rappresentanti del Paese dal momento che esistono almeno altre tre significative etnie: tajiki, uzbeki e hazara; un senso di accettazione reciproca e convivenza deve essere sviluppato per superare le differenze. Dato il vantaggio geopolitico della propria presenza in Afghanistan, è poco probabile che gli Stati Uniti lo abbandonino in poco tempo. La missione militare può finire, ma rimangono la fornitura militare, il materiale, i meccanismi d’intelligence e circa 25 mila truppe per l’addestramento nel ruolo di advisor. Infine, troppi afghani sono stati esposti ai frutti della vita moderna nelle ultime decadi. L’educazione, il sistema sanitario e l’accresciuta consapevolezza non li lasceranno soccombere facilmente alle trappole di un movimento “talibaneggiante”.

Scenari post-2014

Gli scenari post-2014 sono molto più legati agli sviluppi che si saranno tra il 2012 ed il 2014. Ciò nonostante ogni previsione dipenderà da questi fattori cruciali: il rafforzamento delle ANSF e delle altre istituzioni, il successo o meno della stabilizzazione prima del 2014, il tipo di ruolo che assumeranno gli Stati Uniti e le altre forze internazionali dopo il 2014, l’integrazione dei Talebani nel sistema politico e, ultimo, ma non meno importante, il ruolo giocato dal Pakistan. Il 2014 porta con sé un altro notevole problema. Le elezioni presidenziali previste tra agosto e settembre coincideranno con la ritirata di tutte le forze internazionali attese per dicembre 2014. Con Karzai non più eleggibile per un terzo mandato e la mancanza di un’alternativa chiara all’orizzonte, la data in questione potrebbe rappresentare un enorme rischio politico. Oggi il Paese si trova ad un bivio. Molte questioni devono essere oggetto di riflessione, dibattute e risolte dagli afghani stessi, tra le più importanti v’è quella di trovare un punto d’incontro e la mutua accettazione tra i vari gruppi etnici e d’interesse. Una buona governance e la corruzione sono la seconda problematica per importanza. Come uno studioso afghano ha suggerito, è necessario ricorrere alla “depoliticizzazione delle etnicità” e “de-etnicizzare la politica” del Paese. La ricostruzione sarebbe così finalmente nelle mani degli afghani, per percorrere la strada del progresso ed imparare a convivere nella complessa realtà di dinamiche endogene ed esogene.

(Traduzione dall’inglese di Maria Zanenghi)


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