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Africapitalismo (e ruolo della Cina) contro la carità che uccide!!

Creato il 11 maggio 2010 da Albertofattori
Africapitalismo (e ruolo della Cina) contro la carità che uccide!!Anche qua all'EXPO sta emergendo forte come Cina ed Africa abbiano da tempo stretto un "patto per lo sviluppo", attraverso l'implementazione di una strategia semplice e chiara: "basta alla carità, si alla creazione di economie reali".
Attraverso questo "semplice" approccio, la Cina sta quindi contribuendo a creare economie reali nei diversi paesi Africani dove agiscono le proprie imprese, un metodo molto diverso da quello che ha caratterizzato l'azione dell'Occidente per secoli.
Di seguito un articolo del Sole di Angolo Mingardi che "riassume" bene le idee di una delle economiste africane più influenti al mondo: Dambisa Moyo.
Alla sua autrice è valso un posto fra le cento personalità più influenti al mondo secondo «Time», entusiastici articoli su «Wired» e «Le Monde», l'ammirazione di Oprah Winfrey. Ma Dead Aid di Dambisa Moyo, che in Italia arriva per Rizzoli con l'abrasivo titolo La carità che uccide, è più di un saggio che ha scalato la bestseller list del «New York Times».
È un libro il cui tempo è finalmente venuto, è uscito al momento giusto dopo una gestazione collettiva di mezzo secolo. Mezzo secolo nel quale gli aiuti di stato sono apparsi all'Occidente il modo migliore per sgravarsi la coscienza, dopo il trauma della decolonizzazione.
La carità che uccide è debitore di una scuola di pensiero minoritaria nel mondo degli studi, e che tuttavia col tempo ha alimentato una prospettiva originale e solida. Il libro è non a caso dedicato alla memoria di Lord Bauer, che ne fu il punto pivotale. Per Bauer, il foreign aid era «rubare ai poveri dei paesi ricchi, per dare ai ricchi dei paesi poveri».seattle times
Gli aiuti in denaro verrebbero regolarmente stornati dalla classe politica locale a proprio vantaggio, perpetuando nel tempo un circolo vizioso, indebolendo lo sviluppo economico e impedendo il formarsi delle istituzioni fondamentali per lo sviluppo. L'afflusso di denaro dall'estero, erogato a fondo perduto, svilupperebbe una sorta di dipendenza.
L'élite locale si abituerebbe ad alimentarsene, concentrando sempre maggiori risorse in una burocrazia che soffoca il rachitico corpo di un'economia privata senza la forza di crescere. Il fatto che sia chi è al governo a gestire un simile "bottino" comporterebbe, a sua volta, che le persone più istruite e ambiziose, anziché dedicarsi a un percorso imprenditoriale, prendano la via di una carriera all'ombra dello stato. È per questo che i fondi stanziati dalle grandi agenzie internazionali continuano a non arrivare ai bisognosi per i quali sono pensati: l'aspettativa che ne arrivino altri basta a perpetuare una classe dirigente a vocazione parassitaria.
Le critiche ai meccanismi di erogazione degli aiuti allo sviluppo hanno nel tempo fatto breccia, portando le grandi istituzioni internazionali a sviluppare strumenti per vincolarli il più possibile al raggiungimento di obiettivi e a riforme istituzionali. Ma, nell'opinione pubblica occidentale, l'idea che aiutare i paesi in via di sviluppo voglia dire non fare affari con loro, non commerciare, non scambiare, ma dargli un'elemosina, è radicata. Così come lo è l'idea che gli unici attori con la potenza di fuoco necessaria a farlo con successo siano i governi.
I saggi di Bauer sono usciti troppo presto, quello di Dambisa Moyo è stato pubblicato al momento giusto. Dopo che le grandi parate del «Live Aid» (cui fa il verso il titolo originale) hanno generato clamore mediatico: produzione di appelli a mezzo di appelli. Soprattutto, dopo che il privato, e non il pubblico, ha dimostrato al giro di boa degli anni Duemila di sapere fare dello sradicamento della povertà un obiettivo.
Pensiamo al ruolo che stanno giocando realtà come la Fondazione Bill e Melinda Gates. O a Mohamed Yunus e alla sua Grameen Bank. Oppure a realtà meno conosciute, il microcredito online di «Kiva», o il venture capital sociale di imprenditori come il malesiano Kim Tan. Non è questione di corporate social responsibility.
È che avvicinando i paesi del mondo la globalizzazione ha scovato nuove opportunità di profitto. Alcune si trovano in quello che una volta si chiamava «Terzo mondo». E la possibilità di fare profitto attira investimenti.
Dambisa Moyo è nata a Lukasa, in Zambia, paese col quale mantiene un rapporto vivo e non di maniera. Ha preso un master a Harvard e un dottorato a Oxford. Dopo un breve passaggio in Banca mondiale, per quasi dieci anni ha lavorato come analista a Goldman Sachs: a seconda dei punti di vista, la più grande investment bank del mondo o il vero villain della crisi finanziaria.
Quel che conta, per Miss Moyo e i suoi lettori, è che l'esperienza in Goldman la porta a essere attenta non solo alla dimensione istituzionale, ma anche al giro del fumo degli affari. È per questo che, mentre biasima«sessant'anni,un miliardo di dollari di aiuti all'Africa e non molti risultati positivi da mostrare», Moyo guarda con interesse alla partita che in Africa sta giocando la Cina. Perché i cinesi non versano oboli, fanno investimenti.
«L'errore dell'Occidente è stato dare qualcosa in cambio di niente», ha scritto, mentre gli investitori cinesi pretendono di guadagnare, di fare profitto. È così che si appicca il fuoco della crescita economica, a vantaggio anche degli africani. Il punto di vista di Moyo è meno eccentrico di quanto si creda. Poche settimane fa il «Wall Street Journal» definiva il ruandese Paul Kagame «a supply-sider in East Africa », alla stregua di un consigliere di Reagan. Il presidente ugandese Yoweri Museveni ha chiesto in più di un'occasione «trade not aid»: opportunità di scambio, rimozione delle barriere doganali, non «aiuti» in moneta.
Il presidente della Camera della Costa d'Avorio, Mamadou Koulibaly, conduce una difficile battaglia per sviluppare nel suo paese il catasto, in modo da garantire la certezza dei titoli di proprietà, primo mattone di un'economia di mercato. Ecco che Dambisa Moyo, quando riflette sulla performance dei mercati obbligazionari africani e sullo sviluppo del private equity, quando spiega che ridurre le barriere al commercio inter-africane è un passo essenziale per creare opportunità per tutti, quando si preoccupa per quella statolatria che è il lascito avvelenato degli aiuti, non è solo un'anticonformista di successo,un animale da talk show, una provocatrice che sa vendere libri. È la profetessa di un'idea il cui tempo è venuto. L'afrocapitalismo
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