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After.Life (2009)

Creato il 09 novembre 2012 da Elgraeco @HellGraeco

After.Life (2009)

Di questo film se ne parlò tanto persino in tv, perché Christina Ricci era nuda. Altre motivazioni non le ricordo.
Christina Ricci, in After.Life è nuda per la maggior parte del tempo. E il film è costruito attorno alla sua nudità.
Ed è un bel vedere, e forse basterebbe pure a farne un film, magari di altro genere.
Sorpresa, il regista è LA regista, Agnieszka Wojtowicz-Vosloo. E After.Life è uno dei film più feticisti che abbia mai visto (talmente tanto che QUI, per tremila dollari, potete acquistare il tavolo dove Christina è stata stesa, sempre nuda, per tutto il film). Non necessariamente un male. Dipende sempre se trattasi di opera compiuta o meno. Le ragioni ho smesso di cercarle. Non è che si può infastidire un autore chiedendogli il perché abbia portato il feticismo sullo schermo, lo si vede e basta. Si gradisce o meno. Tutto il resto non conta.
E After.Life si muove in un territorio tipico hollywoodiano, quello della morte giovane, delle onoranze funebri in stile Six Feet Under, o prima ancora, nel territorio sepolcrale, sebbene comico, della Famiglia Addams. A scanso di equivoci, After.Life non è una commedia, ma degli Addams espone Christina Ricci, che da bambina, quando faceva Mercoledì, era più allegra di adesso.
Qui è una depressa che manda a monte, per insicurezze e per paura, la love story col fidanzato più odioso della storia, non foss’altro perché Justin Long è persino più antipatico di Dominic Monaghan, e ce ne vuole.

After.Life (2009)

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Il co-protagonista, anche se non si direbbe dai titoli di testa che lo vogliono ultimo, è Liam Neeson. È lui, lo scavafosse, che prepara anche i cadaveri. Intorno a lui e alle sue doti paranormali, e a Christina Ricci nuda, si snoda l’intreccio.
Film che, in teoria, m’è pure piaciuto, e non solo perché Christina Ricci è nuda. La verità è che non lo so, di preciso. M’è piaciuto, ma non lo consiglierei. M’è piaciuto, forse perché in fondo, ogni tanto questo tipo di ambientazione macabra ci vuole, possiede un fascino arcano. Perché morboso (e feticista, come ho detto) al punto giusto.
E soprattutto perché riesce a restare in bilico, a tenere lo spettatore nell’incertezza. La faccenda è: Christina Ricci è morta davvero, com’è scritto nel certificato che Liam Neeson le mostra, mentre lei è sul tavolo dell’obitorio, e il fatto che sia ancora cosciente e che parli con l’imbalsamatore è frutto del particolare dono extra-sensoriale di quest’ultimo, oppure Neeson è solo un maniaco omicida che l’ha rapita per tenerla con sé tre giorni e dopo seppellirla viva?
Ecco, questo è il dubbio, ed è anche il film. E per il corpo centrale dello stesso, questo semplice dubbio riesce a non annoiare.

After.Life (2009)

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Si parte dallo stereotipo più becero, per far sì che Christina abbia l’incidente d’auto che la porta dritta dritta tra le capaci manone di Liam Neeson, una lite col fidanzato, e vabbé… e poi si resta ad aspettare per un’ora e mezza qualche guizzo orribile e putrescente, trattandosi di cadaveri, qualcosa in più, che sconvolga, ma non accade nulla. Niente che copisca, almeno. Solo quel dubbio cui accennavo prima. Con la regista che si diverte a propendere per entrambe le ipotesi, Christina Ricci viva e drogata, oppure morta e persistente in spirito. Fidanzato che si strugge per il rimorso e che arriva a sospettare che lei sia viva, perché da lei riceve una telefonata. Telefonata che regge in entrambi i casi, se avete mai letto le testimonianze di chi sostiene di aver ricevuto chiamate dall’aldilà.
E poi, diciamo che Christina cadaverica, con occhiaie spaventose, è perfetta. Si troverebbe a suo agio in un film di zombie, soprattutto per quell’aria che ha sempre, tipica di chi sta sull’orlo del burrone e riflette se sia il caso di fare un passo in più, con noncuranza. Da questo punto di vista, averla scelta per la parte è stata cosa saggia.

After.Life (2009)

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Liam Neeson non ha il carisma di Rupert Everett quando faceva Francesco Dellamorte. Non c’è un emulo di Gnaghi che stacca la testa della Ricci e la mette dentro un televisore, putrescente, per vivere la sua storia d’amore. C’è l’attesa, i tre giorni, perché lei accetti il trapasso nel modo più sereno possibile. C’è il gusto, dopo averle tagliato i vestiti con le forbici, averla spogliata, vista nuda da qualunque angolazione, di rivestirla elegante e metterla in una bara di raso viola. Donna oggetto che più non si può, specie considerando che, alla fine, non mostra di avere mai avuto alcuna volontà.
E torna ancora il dubbio instillato da Neeson, che seppellisce i non-viventi (quando ancora sono in vita) perché con il loro lasciarsi vivere tolgono spazio e ossigeno a coloro che, al contrario, desiderano la vita con tutte le loro forze.
Il guaio, ed è sintomatico, che questa oggettivazione della donna viene portata in scena proprio da una donna e, non inganniamoci su questo fatto, non viene inscenata con intento catartico, tale da far ribellare l’oggetto alla sua condizione, ma come condizione assoluta e ineluttabile, con Christina Ricci prigioniera del suo corpo morto, gestita in tutto e per tutto, finanche nella pettinatura e nel trucco, da Liam Neeson.
Cosa che risulta tragica, pur possedendo una sfumatura filosofica che sa di esistenzialismo; la morte, dopotutto, è quella cosa che ci oggettivizza per eccellenza.
Ma forse sono io che ci sto ricamando troppo sopra, a questo film. E sono stato abbagliato. Da cosa, ve l’ho pur detto.

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