di Daniele De Giorgi
Una serata piacevolissima, davvero non male come secondo appuntamento. La sto accompagnando a casa, o meglio al collegio di suore in cui ha il dubbio privilegio di abitare: una sistemazione che coniuga orari da caserma, promiscuità da pollaio, pasti di una frugalità francescana e un canone mensile ragguardevole. Il tutto condito dalla austera compagnia delle religiose.
Passeggiamo lungo la Nomentana e i nostri passi son quelli di chi non ha alcuna fretta di arrivare, a dispetto dell’approssimarsi delle 22:30, l’ora in cui al collegio scatta il coprifuoco e tutte le ragazze devono essere rientrate.
Arrivati dinanzi al cancello chiacchieriamo per qualche altro minuto, e mi compiaccio nell’osservare il suo bel viso illuminato da un sorriso divertito,mentre reclina lievemente il capo di lato e i capelli castani lambiscono le sue spalle scoperte, dandole un’aria dolcemente scarmigliata.
Ci avviciniamo per salutarci, gli sguardi si fanno languidi, le nostre mani indugiano più del necessario sui fianchi dell’altro.
“Pensavo che domenica pomeriggio potremmo andare a prenderci un caffè a Villa Borghese e rilassarci un po’ nel parco…” dico.
“Ah,pensavi..?” mi canzona lei.
“Si,beh…è che a casa mi si è rotta la macchinetta del caffè,e quindi sono costretto a prenderlo fuori…” scherzo.
Lei sorride: ”Bene,se è così, domenica…”. Ma non termina la frase: sgrana gli occhi, spalanca la bocca e inizia ad emettere un verso metallico, forte e ritmato. Mi stacco da lei, sbigottito, mentre il suo volto assume un’espressione stralunata. Provo a calmarla: ”Ascolta, se domenica è un problema…noi..”. Ma il verso si ripete, più forte…violento, robotico, simile forse ad un allarme…si, un allarme..oppure una sveglia…ecco, maledetta: LA SVEGLIA!!
Mi rivolto nel letto il tanto che basta a vibrare un pugno sulla radiosveglia. Ma uno non basta, e allora eccone un secondo, un terzo, e al quarto colpo finalmente quest’ordigno smette di strepitare.
“Stronza..” biascico, tra i fumi della semincoscienza , senza sapere se mi rivolgo alla sveglia o alla ragazza del sogno, che mi ha risposto in quel modo. Percepisco di aver smarrito il filo del sogno che stavo facendo,inesorabilmente.
Seguono cinque minuti durante i quali scivolo nuovamente nel sonno, illudendomi forse che sia nuovamente notte. Ma ecco che la sveglia torna a strillare, strappandomi alla quiete. Sono costretto a torcermi di nuovo e stavolta al primo colpo riesco a metterla a tacere. Mi accorgo che a furia di rigirarmi mi sono avvolto nelle coperte come un baco da seta; me ne libero e guardo con astio la sveglia, mentre mi drizzo a sedere: sono le 6:48 adesso. La radiosveglia mi è stata regalata in quinta elementare, più di un decennio fa, e funziona ancora con fin troppa ostinazione: occorre sapere in quale punto esatto premere per far cessare il suono, altrimenti si può tentare inutilmente fino a rompersi la falange. I miei piedi trovano a tentoni le pantofole e vi si rifugiano, mentre io bevo un sorso d’acqua dal bicchiere sul comodino. Infine mi alzo e sollevo la serranda, in mutande, tanto chi vuoi che stia alla finestra a quest’ora? Ecco che una vecchia,affacciata a fumare, mi sorride. Bene! Chiudo le tende e,indossata la tuta, esco dalla stanza.
E’ il momento della colazione, un rito che i miei hanno sempre cercato di inculcarmi, e non del tutto invano: se alzandomi trovo la colazione imbandita per me, è probabile che mi sieda a consumarla. Ma se devo correre al lavoro e ho i secondi contati, il discorso cambia! Così entro in cucina e apro lo stipo in cui io e il mio coinquilino teniamo le provviste per la colazione; l’occhio è attratto immediatamente da una confezione di crostatine al cioccolato: vi infilo la mano, speranzoso, ma la trovo vuota. Impreco e ripiego su una confezione di “Macine”,poi traggo dal frigo un cartone di succo d’albicocca e me ne verso un bicchiere. Consumo la mia frugale colazione in piedi, non perché questo mi faccia risparmiare tempo, ma perché me ne da la sensazione. Mentre mastico con la velocità di un roditore, lo sguardo mi cade sulla grande mappa di Roma appesa ad una parete della cucina e percorre idealmente il tragitto che dovrò seguire per arrivare all’agenzia della banca in cui lavoro: circa 11 km di mezzi pubblici. Tempo di percorrenza stimato:dai 40 ai 45 minuti se mi sbrigo abbastanza da uscire di casa in anticipo rispetto alla massa di studenti che si reca a scuola, altrimenti dai 45 ai 50 minuti. Mi guardo attorno: la cucina è in buono stato, ma il lavandino offre uno spettacolo desolante: una pila di piatti sporchi torreggia con aria di sfida. Guardo l’orologio e mi accorgo che le 7 son passate già da qualche minuto, mi riprometto di lavare i piatti in serata e vado verso il bagno, figurandomi già un titolo di giornale del tipo: “Emergenza piatti sporchi a Roma: Bertolaso nominato commissario straordinario”. Sogghigno mentre mi lavo le mani e il viso. Accendo la radio, perennemente sintonizzata su Radio105,che a quest’ora trasmette un piacevole profluvio di battute demenziali. Mi lavo i denti, quindi mi volgo al WC, altrimenti noto come cesso, su cui campeggia un adesivo con la scritta “LOTITO”. Questo si spiega con il fatto che il mio coinquilino è laziale, cioè tifa Lazio, pur essendo come me di origini leccesi (si stima che questo fenomeno abbia una probabilità di verificarsi paragonabile a quella della nascita di un congolese biondo platino), e trae soddisfazione dall’accostamento tra il suo odiato presidente e il suddetto cesso. Io, dal canto mio, apprezzo gli effetti diuretici di questa trovata.
Torno in camera, e adesso è la volta dell’operazione che mi porta via la maggior parte del tempo dal momento in cui mi alzo a quello in cui esco da casa: la scelta di cosa diavolo mettermi. Alla fine opto per una classica camicia bianca,su pantaloni neri abbinati ad una giacca grigia. Vi aspettereste una cravatta? Vi ho rinunciato: ogni banca ha delle direttive aziendali, implicite o esplicite, in materia di abbigliamento. Le nostre non sono troppo rigide e in ogni caso ovviamente molto dipende dalla propria mansione e dal contesto in cui la filiale è inserita. Ebbene a Boccea, il quartiere popolare in cui si trova la mia agenzia, potete fare a meno di una cravatta, ve lo garantisco.
Mentre abbottono la camicia lancio uno sguardo colpevole al libro che giace aperto sulla mia scrivania: la sera prima l’ho abbandonato per fare una breve pausa dallo studio, ma quella pausa non si è più conclusa. Il libro va a fare compagnia ai piatti sporchi tra i buoni propositi per la serata.
Una volta vestito torno in bagno per darmi un’aria raccomandabile. Mi do un colpo di pettine, cercando di dissimulare la cronica somiglianza dei miei capelli ad un cespuglio di rovi. La barba ha una lunghezza accettabile. Le occhiaie denunciano lo scarso sonno. Mi lavo nuovamente il viso: alla fine lo specchio mi restituisce un’immagine confortante. Guardo l’orologio: sono le 7:36, devo muovermi. Negli ultimi cinque mesi ho percorso molte decine di volte il tragitto casa-lavoro e viceversa, e ormai conosco perfettamente i fattori e le variabili che fanno la differenza tra arrivare in orario e arrivare in ritardo: i tempi di percorrenza di bus e metro, i tempi di attesa, gli imprevisti più ricorrenti. Ovviamente metto a frutto quest’esperienza calibrando i tempi in modo da poter rimanere sotto le coperte il più a lungo possibile, evitando al contempo di arrivare in ritardo.
Torno in camera a prendere cellulare e portafogli, afferro le chiavi appese accanto alla porta di casa, infilo tutto in tasca alla rinfusa e finalmente esco. Premo convulsamente il tasto dell’ascensore e attendo che esso pigramente arrivi al mio quinto piano. Durante i pochi secondi della discesa cerco di scrollarmi di dosso l’aria assonnata sorridendo allo specchio nel modo più idiota che mi riesce. Al pian terreno incontro Franco, romano, alto e dinoccolato, poco meno che quarantenne ma con un’aria da ragazzino impertinente che lo fa sembrare molto più giovane. E’ appena uscito da casa e ci avviamo insieme.
“Ciao zio” mi apostrofa,alla romana.
“Ciao Fra’ ” rispondo sorridendo.
“Oh c’hai du borse sotto gli occhi che ce poi annà a fa la spesa!”
“Sei dolcissimo”.
Sogghigna, mentre attraversiamo il cortile del complesso di edifici che costituisce il nostro condominio.
Poi riprende: “Dai confessa, che hai fatto ieri sera?”
“Quello che faccio tutte le sere”.
“Cercare di conquistare il mondo”,mi sfotte.
“Cercare di studiare Tributario” replico.
“Vabbè dai, nun ce pensà” sorride,”io sò arrivato!”. E così dicendo si infila nel suo box vetrato, il suo piccolo “ufficio”. Franco è il portiere del condominio, ed è arrivato al lavoro, in trenta secondi. Invidiabile! E infatti lo invidio, mentre percorro a passo svelto gli ultimi metri che mi separano da Viale Libia.
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