Del resto molti documenti e libri antichi ne attestano l'impiego in culture diverse, nella Bibbia per esempio gli ebrei in fuga verso la Terra promessa rimpiansero l'aglio d'Egitto (Numeri 11, 5), e questo aspetto narrato ci fa capire come fosse apprezzato sia dal popolo ebraico che da quello egiziano.
(Velasquez, 1620, Cristo in casa di Maria e Marta,
Nation Gallery, Londra)
I primi che lo nominano sono alcuni testi in sanscrito, mentre è citato per le sue virtù terapeutiche dal famoso testo indiano Charaka Sahmita, tra il II secolo a. C. e il II secolo d. C., e dal testo buddista Navanitaka nel IV secolo d. C., quest'ultimo fa parte di alcuni manoscritti ritrovati da un ufficiale inglese alla fine dell'Ottocento. Nell'India antica si pensava che il bulbo avesse proprietà afrodisiache, per questo motivo ne era interdetto il consumo ai monaci ma, in linea generale, era ampiamente utilizzato sia nella medicina ayurvedica che in cucina.
Come ho già avuto modo di accennare in precedenza, gli Egizi ne facevano largo uso non solo per insaporire le pietanze, ma anche come valido corroborante e medicamento, in particolar modo contro le parassitosi; era molto raccomandato per i lavoratori delle piramidi. Erodoto (V secolo a. C.) riporta nei suoi scritti che nei vent'anni impiegati per costruire la piramide di Cheope furono spese ingenti somme per acquistare oltre 1500 tonnellate di agli, cipolle e rafani; la sua forte presenza nella medicina egiziana è attestata anche dal papiro di Ebers (1500 a. C.), tra l'altro molte delle ricette che vi sono presenti furono poi riprese da Ippocrate che lo utilizzò per la cura di varie afflizioni.
Nonostante, come è stato visto, la farmacopea lo utilizzasse in modo diffuso, il suo odore non era sempre ben tollerato: presso i Romani le sacerdotesse di Cibele, divinità anatolica venerata come "Grande Madre Idea", proibivano l'ingresso al tempio agli individui che l'avevano consumato poco prima. Esso era considerato inoltre un alimento per poveri, tant'è che l'espressione "allium olere" cioè "puzzare d'aglio" veniva utilizzata per indicare individui appartenenti a classi sociali basse, è da notare che questa credenza era presente anche presso gli uomini di cultura, basta leggere gli scritti di Orazio in merito.
Ebbe grande successo anche presso i Bizantini che lo consumavano arrostito e poi condito con olio e aromi.
Durante il Medioevo l'aglio era cibo per poveri, anche se occorre fare le opportune considerazioni in merito. Nel sistema sociale e culturale medievale (come già approfondito in tanti altri articoli),vi erano cibi che erano destinati ai nobili ed altri al popolo. In questa logica la reperibilità delle materie prime, le mode dei vari luoghi o credenze magiche/antropologiche connesse ad un prodotto, potevano aumentarne il prezzo in modo considerevole e quindi renderlo appannaggio esclusivo dei ceti elevati.
In tutto questo grande discorso anche il luogo dove la materia prima cresceva era un vero e proprio discriminante: quelle che nascevano sottoterra erano destinate ai ceti bassi, viceversa se crescevano in alto sugli alberi erano destinate ai ceti elevati; avremo modo di trattare questo argomento specifico in modo maggiormente approfondito in un articolo successivo.
Un testo del X secolo d. C. narra che il fetore prodotto da aglio e cipolla presenti nelle bisacce dei pellegrini e parte delle poche provviste che si portavano durante il viaggio (la cipolla veniva tenuta con se non solo perché economica ma anche perché veniva considerata un farmaco potente in grado di curare diverse patologie), bastava a segnalare la classe sociale a cui appartenevano e quindi a provocare nausea agli individui appartenenti a classi sociali superiori, monaci compresi.
(Giuseppe Arcimboldo, Estate, 1572,
Kunsthistorischesmuseum)
Emblematica è anche la Novella di Sabadino degli Arienti (Bologna 1445 circa - Bologna 1510), scrittore, politico e umanista italiano. L'opera narra dello scherzo fatto dal duca di Ferrara Ercole d'Este al contadino Bondeno che pensava (in modo improbabile) di essere stato fatto cavaliere. Quando, durante la cerimonia, venne il momento di scoprire lo scudo con le insegne del neo- cavaliere vi apparve disegnata una testa d'aglio, simbolo dell'improbabilità di quella promozione, e quindi della burla messa in atto.
E' chiaro però che esso venisse usato anche dai nobili, con le dovute cautele atte a nobilitarlo e quindi renderlo degno di chi si apprestava a consumarlo. In sostanza le azioni compiute erano due: o abbinarlo a materie prime elevate (per esempio sulle mense dei nobili si poteva ipoteticamente trovare aglio cotto con spezie), oppure diveniva parte di preparazioni il cui protagonista principale era un altro, assai più prelibato (per esempio l'aglio conficcato nelle carmi da fare arrostite).
Il suo utilizzo a scopo curativo proseguì nella storia incolume delle mode alimentari; durante l' emblematica peste di Marsiglia quattro malviventi che depredavano le vittime della pestilenza e risultavano immuni al morbo vennero arrestati e, sotto interrogatorio, confessarono che le loro povere tasche gli consentivano di cibarsi solamente di pane e aglio. Grazie a questa confessione si pensò che l'aglio poteva essere un rimedio efficace, venne sperimentata quindi successivamente una ricetta a base di aglio macerato in aceto somministrata forzatamente ad alcune cavie ottenendo risultati positivi. Fu così utilizzato per molto tempo come antisettico anche per altre patologie, nell'Ottocento ne era attestato l'utilizzo per curare i malati di Tisi. Proprio durante questo secolo che venne dimostrato scientificamente da Pasteur (1858) che il nostro protagonista possedeva virtù curative.
In Italia il suo uso era profondamente legato alla cucina popolare e contadina e non rientrava solo in preparazioni ma diveniva una vera e propria pietanza, si pensi ai suoi germogli cotti e consumati, ma anche alla tradizionale bagna cauda in cui l'aglio, assieme a pochi altri ingredienti, è il protagonista indiscusso. Questa preparazione con materie prime povere e poco costose, abbinata ai prodotti che l'orto poteva offrire, consentì a molte generazioni di gente contadina di placare i morsi della fame.
Nella letteratura è presente in due forme: o come documento del mondo contadino con le sue peculiarità (si pensi a Dumas), oppure come testimonianza del rifiuto del suo uso, si pensi a Shakespeare che in "Sogno di una notte di mezza estate" fa dire ai propri attori di non mangiarlo perché " (...) e soprattutto, attori, anime mie, badate a non mangiar aglio o cipolla, perché dobbiamo esalare tutti un alito che deve riuscir dolce e gradevole (...)".
Nell'arte esso può essere presente nelle rappresentazioni degli interni di cucina, oppure rimandando al significato nell'esegesi biblica di corruzione della mente da parte del peccato, anche in quadri di matrice religiosa.
Il quadro presente qua sotto, infine, è un esempio della commistione tra le pratiche mediche e alimentari e quelle legate alla superstizione, l'aglio era infatti appeso perché si pensava che le esalazioni tenessero lontane le malattie e gli spiriti maligni.
(Gerrit Dou, La speziera, 1647, Parigi Louvre)
Storia, usi, credenze e pratiche legate ad un piccolo vegetale profumato che accompagna l'uomo da secoli.