Fra i tanti ricordi lasciatici dalla signora Agnese, la moglie di Paolo Borsellino, c’è un aspetto che forse non tutti oggi rammentano e che la dice lunga sulla statura della donna scomparsa ieri. Alludiamo alla capacità – straordinaria e pienamente comprensibile solo in un’ottica cristiana – che lei ebbe di spingersi praticamente fino al perdono degli assassini del marito. Senza mai stancarsi di chiedere giustizia, infatti, Agnese Borsellino offrì una testimonianza di grande fede ed adesione agli insegnamenti del Vangelo.
Fu lei stessa a darne prova diretta allorquando, in una lettera indirizzata a Giovanni Paolo II – e pubblicata sull’Osservatore romano del 6 maggio 1993, alla vigilia della visita papale in Sicilia e, coincidenza, esattamente venti anni fa – seppe guardare oltre le proprie ferite con parole che ancora oggi, se rilette, non possono non commuovere: «Sapere che il sangue del mio Paolo oggi è seme di speranza e di liberazione per tutto questo nostro popolo mi riempie di gioia e di orgoglio e mi dà un senso della mia pochezza e della mia indegnità».
Che queste fossero parole di una donna che, nonostante quello che era accaduto al marito, seppe perdonare, è confermato poi da una conversazione che Agnese ebbe poche settimane dopo, il 27 agosto 1993, con le clarisse di Assisi, conversazione durante la quale la vedova Borsellino ammise: «Se c’è un insegnamento che mio marito mi ha dato è che nel cuore dell’uomo, anche di quello più cattivo, c’è sempre un angolo nascosto del buon Abele che, se opportunamente stimolato, può riaffiorare. La speranza allora si nutre della fiducia nell’uomo, anche verso chi sì considera e chi si comporta come un nemico».
Ulteriori parole di perdono arrivarono da Agnese Borsellino nel maggio del 1996, quando, in occasione del ritiro di un premio che le venne assegnato – il Riconoscimento Internazionale Santa Rita -, la donna affermò d’aver vissuto il suo «dramma con cristiana rassegnazione, senza nutrire sentimenti di odio nei confronti degli assassini» che le strapparono il marito. Ed aggiunse: «Le sofferenze patite hanno rafforzato in me l’esigenza di diffondere il messaggio di pace, di amore e di solidarietà umana verso le persone più deboli». Incredibile: a questa donna la criminalità organizzata tolse tutto, e lei si sentì chiamata a «diffondere» messaggi di pace e di perdono.
Il mondo fatica a capire simili posizioni e non di rado le scambia per segni di debolezza. Mentre in realtà sono l’opposto, e cioè segni di forza straordinaria. Perché la ragione principale per cui il Male ci mette costantemente alla prova – talvolta arrivando persino a privarci delle persone più care, come fece con Agnese Borsellino, in modo improvviso e brutale – è proprio l’auspicio di incuterci terrore, di spiazzarci, di metterci per sempre a tacere. Il Male e le sue espressioni, fra le quali rientra la criminalità organizzata, vivono insomma della nostra paura. E viceversa iniziano a morire quando, nonostante la loro azione, la speranza non viene cancellata.
Per questo è evidente come la signora Agnese, col suo spiazzante perdono, non abbia fatto altro che proseguire l’opera del marito. In forma diversa, certamente, ma in modo ugualmente eroico.