Com’è naturale, sono venuto a conoscenza di questo film spagnolo da siti di cinema statunitensi, molto più attenti di noi alla scena internazionale. Ciò che spesso critico del cinema americano, ovvero l’essersi venduto l’anima e i pantaloni al marketing, pare essere del tutto assente nei blogger d’oltreoceano che, come noi altri (e qui ho un pizzico d’orgoglio), badano alla sostanza e al bel cinema, e solo a quello.
Agnosia è un film che m’era parso accattivante, avendone letto segnalazioni e recensioni.
Solita storia, e credo non sia una novità per nessuno, il fatto che il cinema spagnolo (e non solo, tra i paesi europei) ci abbia fatto mangiare la polvere. E che le nostre cagate psicological-chic non siano all’altezza delle produzioni estere già a partire dai titoli di testa. Infatti, anche il film in esame si innesta su elementi intriganti. Abbiamo:
1) una bambina, poi donna, affetta da agnosia
2) una fabbrica di lenti
3) la volontà di utilizzare tali lenti nell’industria delle armi
4) un’ambientazione retro-futuristica.
Suppongo che gli spunti abbiano iniziato a stuzzicarvi. Ma non correte.
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Cominciamo dall’estetica. Ovvero, da ciò che si vede.
E ciò che si vede è bello, non semplice, non perfetto e spettacolare come avrebbe potuto essere, ma senza dubbio bello. E mi riferisco alla qualità della fotografia, chiari e scuri, soprattutto, alla scenografia e alla resa della pellicola digitale, pari a quella delle produzioni hollywoodiane.
Quella che ci viene mostrata è una Spagna barocca, che parrebbe essere collocata, temporalmente, durante la dittatura, ma che in realtà appartiene a una dimensione atemporale. Sembra più ottocentesca, infatti, e il ogni caso, la regia è molto più interessata ai colori che alla cornice.
I colori sono, infatti, l’unico mezzo certo che consente alla protagonista, Joana (Bárbara Goenaga), affetta da agnosia dopo un’encefalite, di rapportarsi col mondo esterno, di riconoscere le persone che le stanno intorno; un mondo altrimenti non filtrato che si traduce in un eccesso di stimoli percettivi devastante per il suo cervello.
E allora abbiamo la camera oscura, la crisalide dove Joana viene rinchiusa per proteggerla, suggestiva nei suoi grigi e nei suoi angoli bui; le coccarde color pastello che spiccano sulle giacche degli abitanti della magione Prats, necessari abbiamo visto per il riconoscimento; e un fantastico bordello, o casa da oppio, o tutt’e due, dove il marito di Joana va a sfogarsi, tra tendaggi di velluto color sangue, prostitute orientali conn troppo trucco e arabeschi di fumo azzurrino.
L’estetica c’è, quindi, ed è bellissima.
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Poi viene il resto. La storia. E la storia, devo ammettere, delude un po’. Non che sia pessima, ma, piuttosto… sfiora in continuazione i contorni di generi disparati, dal dramma, al romance, alla spy-story (sì, credeteci, lo spionaggio) senza mai adagiarsi da qualche parte. Il risultato è molta approssimazione e nessuno dei precedenti spunti che sia sviluppato e completato come meriterebbe. Alla fin fine sembra che il regista, Eugenio Mira, sia innamorato della sua attrice e quindi faccia di tutto per ritrarla e conferirle il giusto spessore, in una serie di inquadrature che comunicano, tanto sono perfette. Il punto è che è un monologo, il suo, che non scioglie l’intreccio ma lo appesantisce.
L’agnosia, motivo trainante e collante dell’intera vicenda, cade in secondo piano, proprio durante il finale, divenendo mero accessorio per una storia che vira bruscamente, e tristemente, verso il melodramma sentimentale, di fatto annientando quello che, fino a quel punto, era sembrato un tentativo ambizioso, se non altro originale, di cinema weird, impuro e perciò stesso coinvolgente, almeno per me.
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Risultato finale, film noiosetto, che non suscita emozioni forti, da qualunque lato lo si guardi. Ed è questo, in definitiva, la sua colpa: l’indifferenza di chi guarda. Come se fossero gli spettatori, alla fine, a essere ammalati d’agnosia.
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