Con “agorafobia” si intende, in senso letterale, “paura della piazza”. È un termine che deriva dal greco, dove “phobia” vuol dire “paura” e “agora” significa “piazza”. Coloro che soffrono di questo disturbo hanno paura degli spazi aperti o dei luoghi affollati.
È classificata fra i disturbi d’ansia, poiché è relativa al disagio che si prova nel trovarsi in luoghi o situazioni dalle quali può essere difficile o imbarazzante allontanarsi, come ad esempio essere in coda al supermercato o su un mezzo di trasporto pubblico.
Si manifesta in seguito ad un attacco di panico, anche se esistono persone, pur sempre affette da questo disturbo, che non presentano quest’ultimo aspetto.
In questo caso possiamo parlare di agorafobia “senza disturbo di panico”. Ho intervistato per voi Teresa, una donna che soffre di questa malattia dal 2010. Teresa ha accettato di rispondere ad alcune domande, anche se non vuole rivelare il suo cognome, per mantenere segreta la sua identità.
C.B.: Ciao Teresa, benvenuta. Ti ringrazio molto per avere accettato di parlare con noi di un argomento così serio e delicato. Perché lo hai fatto?
Teresa: Ciao Cristina e grazie a te per avermi dato questa opportunità. Vedi, a volte le persone sentono che qualcosa in loro non va, specialmente nel modo di approcciarsi agli altri, ma non lo vogliono ammettere. Quindi penso che parlarne possa aiutare. Qualcuno potrebbe riconoscersi in quello che io dico. Perché ammettere di avere un problema è il primo passo per cercare di risolverlo.
C.B.: Tu hai iniziato a soffrire di agorafobia circa 4 anni fa. Come te ne sei accorta?
Teresa: Sai, molto probabilmente alcune avvisaglie c’erano già state. Da adolescente, a volte mi è capitato di avere palpitazioni e sudorazione in maniera eccessiva, in concomitanza ad eventi che richiedevano una mia esposizione. Cioè io che ero al centro dell’attenzione, indipendentemente dal contesto. Poi per un periodo non ho più voluto guidare la macchina, perché mi creava ansia. Nel 2010 però ho iniziato a capire che qualcosa non andava, poiché ho realizzato che alcuni miei comportamenti erano diventati invalidanti. Mi impedivano di fare determinate cose. Vedi Cristina, il soggetto agorafobico mette in atto strategie per evitare le situazioni che teme, ad esempio evita di recarsi in luoghi affollati o di uscire di casa da solo. Nei casi più gravi la persona non riesce ad allontanarsi da casa nemmeno se in compagnia di una persona fidata. A me si è palesato durante un colloquio di lavoro. Mi sono “appiattita” nella stanza affollata, contro il muro, ho cercato l’uscita con lo sguardo. La sedia sotto di me ha iniziato improvvisamente a “scottare” e me ne sono andata. Oppure un’altra volta, in autobus. Si è riempito all’improvviso e a me è sembrato di soffocare. Ad un tratto hanno aperto le porte per far salire altra gente e io mi sono “buttata” fuori anche se non era la mia fermata, in cerca di aria. Da allora, tendo ad andare a piedi, se posso. E l’autobus lo evito proprio.
C.B.: Che spiegazione hai dato a questi sintomi?
Teresa: Avevo visto un film, “Copycat”, con Sigurney Weaver. Naturalmente la sua forma di agorafobia era totalmente invalidante, però ho iniziato a fare delle ricerche in Internet. I sintomi coincidevano. Purtroppo ero agorafobica. Dicono che una delle cause possibili dell’agorafobia possa essere riconducibile alla paura di essere abbandonati o ad un’aggressività molto forte che però è stata rimossa e di cui quindi il soggetto non è consapevole. Vi è un conflitto tra il desiderio d’indipendenza e quello di dipendenza dagli altri. La persona vuole essere accompagnata quando esce perché non riesce più a svolgere la sua attività in autonomia. Allo stesso tempo però questa condizione di dipendenza può provocare rabbia e far scattare desiderio d’indipendenza, che si fatica a raggiungere.
C.B.: Che pensieri si scatenano nella tua mente?
Teresa: Credo pensieri legati in fondo alla paura di morire per non venire soccorsi in tempo. È più una paura di avere paura, non so se mi spiego. I sintomi si scatenano quando si è soli, perché vengono a mancare i punti di riferimento: la casa, la persona amata, le situazioni familiari. Per fortuna io non ho frequenti attacchi di panico. Però ansia, senso di smarrimento e sensazione come se venisse a mancare la terra sotto i piedi, quello sì. Si ha paura di perdere il controllo.
C.B.: Cosa stai facendo per curarti? Esiste una cura?
Teresa: Sono in analisi da 4 anni. Mi sono affidata ad uno psicoterapeuta, ed è una cosa che consiglio a tutti. Fatevi aiutare da una persona competente, non cercate di farcela da soli, magari per ragioni di diffidenza o per vergogna. Parlarne con una persona esperta aiuta molto. Purtroppo nella nostra società questo tipo di patologia non è ancora tanto conosciuto, e la maggior parte della gente pensa che tu stia fingendo. “È tutto frutto della mente”, dicono. Certo, è vero, ma la mente è quanto di più potente ci sia. Quindi non si può fare molto e soprattutto è un disagio oggettivo, non si sta affatto fingendo.
C.B.: Prendi psicofarmaci?
Teresa: Nel mio caso no. Lo psicologo mi ha sempre detto che non ne ho bisogno. Però, nei casi acuti, lo psichiatra potrebbe prescrivere psicofarmaci, che non sostituiscono la psicoterapia, ma agiscono in modo sinergico. So che i farmaci che si sono rivelati più efficaci nel trattamento dell’agorafobia sono gli Inibitori Selettivi della Ricaptazione della Serotonina, che agiscono aumentando in modo selettivo i livelli di serotonina nel cervello, bloccandone il riassorbimento da parte dei neuroni.
C.B.: Com’è la tua vita adesso, Teresa?
Teresa: Beh, non ho più paura di confessare questo mio disagio. È una patologia a tutti gli effetti, quindi non bisogna vergognarsene. Ho smesso di lavorare fuori casa, e svolgo un lavoro al mio domicilio. Forse questo non mi incentiva ad uscire, ma senza dubbio mi rende più serena. Non devo “farmi violenza” ogni giorno. Ormai ho imparato a conoscermi, quindi evito di svolgere da sola quelle attività che possono mettermi in difficoltà. Da sola esco poco, e solo in posti che conosco e che reputo congeniali. Una volta che se ne ha preso atto, si impara a convivere.
Io e Teresa ci auguriamo che questa chiacchierata sia stata utile. Non abbiate paura di riscoprirvi “diversi”, se necessario. Ammettere di avere un problema è sempre un atto di coscienza.
Written by Cristina Biolcati