Anche questo documentario del 2009 evita le luci della ribalta per ficcarsi nell’entroterra thailandese, lontano dalle metropoli e vicino, proprio ad un passo, alle risaie che una comunità di persone coltivano con la dedizione che solo i contadini hanno.
Lo spaccato rurale esalta l’immagine.
Uruphong Raksasad (regista, sceneggiatore e montatore) diventa muto osservatore dei riti agricoli, ruba le paure, le emozioni, le speranze (utopistiche) degli uomini sullo schermo, contempla la natura e tutte le sue componenti: il sole, il vento, la pioggia, perfino il fango nella sequenza più riuscita di tutta l’opera. Il fascino è tanto, parificabile alla compassione che si prova avvertendo la condizione di estrema povertà in cui vive questa gente, soprattutto quando vengono ripresi i bambini che noncuranti del poco avere si divertono con nulla: lo stelo di una pianta, un tuffo in una pozza d’acqua sporca.
Il fascino estetico però non basta, soprattutto quando un film come questo imbocca la strada del sociale racchiudendo l’opera fra estremi che mostrano due differenti comizi politici. L’intento è chiaro: contrapporre l’inefficienza del sistema all’urgenza quotidiana dei protagonisti, i quali con i loro debiti verso le banche sentono una pesante spada di Damocle sulle proprie teste.
Nulla di sbagliato, senza dubbio, ma allo stesso tempo nulla di impensabile, tanto che non bisogna essere dei veggenti per immaginarsi quale sarà il finale.