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La grande distinzione di cui va tenuto conto nelle modalità delle colture agricole è quella dell’agricoltura a zappa rispetto a quella che utilizza l’aratro.
Le due tecniche non sono peraltro sempre separate, potendo convivere in certi casi sullo stesso fondo ed entro i medesimi cicli produttivi. Tuttavia, mentre l’aratro è eminentemente, se non esclusivamente, associato alla cerealicoltura, la zappa è lo strumento tipico dell’orticoltura, anche se può intervenire anche nella coltivazione dei cereali a campi aperti. Il vantaggio dell’aratro sulla zappa è di natura quantitativa, non qualitativa: accelera il lavoro, ma non lo migliora (un aratore compie a parità di tempo impiegato il lavoro di dieci zappatori). Ma, data la limitata efficacia dell’aratro antico, che rendeva possibile solo un’aratura poco profonda (intorno ai 20 cm), la zappa consentiva una migliore lavorazione del suolo, ed era comunque indispensabile per la frantumazione delle zolle, e anche per una seconda zappatura del terreno già arato. Una parte del lavoro (specie il diserbo dei seminativi) andava comunque condotto a mano. La zappa dunque poteva costituire un’alternativa non sostituibile all’aratro, là dove questo non poteva essere usato, per ragioni orografiche (terreni in forte pendio, aree montuose) o economiche (la zappa era l’ “aratro del povero” e del piccolo agricoltore); ovvero esso rappresentava una componente integrativa dell’aratro, completando l’opera di questo nella sarchiatura del terreno. La zappa era anche usata in appezzamenti troppo piccoli per sopportare l’aratura, e negli orti e nelle vigne. Mentre in Grecia la zappatura poteva essere svolta dall’agricoltore stesso e dai suoi familiari, a Roma, nelle grandi proprietà, essa era affidata alla manodopera schiavile. L’aratro a coltro (e poi a vomere) ha origini antiche, e in Italia si affermò a partire dall’età villanoviana (civiltà del ferro); in età romana, all’aratro tradizionale si affiancò l’aratro a ruote, di provenienza gallica. Di “invenzione” italica fu invece l’erpice (crates), in uso a partire dal I secolo d. C., usato sui campi seminati non a solchi, allo scopo di sminuzzare le zolle (in luogo della rottura manuale con la zappa), ricoprire la semente e sradicare le erbe infestanti. Malgrado l’efficacia inferiore rispetto all’intervento a zappa, l’erpice ebbe grande importanza economica in età imperiale, consentendo un forte risparmio di manodopera schiavile. Mentre nella cerealicoltura (specie nel caso dell’orzo) non era praticata, né praticabile un’efficace irrigazione, questa era indispensabile per l’orticoltura, col ricorso ad acque piovane immagazzinate (cisterne), ovvero a depositi naturali (pozzi), o al sollevamento di acque superficiali e al loro sversamento sui campi coltivati, a mano con la vite d’Archimede, o per mezzo di bilancieri. Là dove, come in Gallia Cisalpina, vi era larga disponibilità di acque fluviali o di risorgiva, veniva anche praticata l’inondazione regolata e permanente del prato irriguo (la futura “marcita” medievale e moderna, oggi non più in uso).
Malgrado le raccomandazioni di Catone (“prima arare, poi concimare”, stercorare), il mondo antico non conobbe concimazioni regolari tali da incrementare in maniera rilevante la produzione. La concimazione nell’agricoltura italica rimase al di sotto del 50% dei minimi dell’età moderna prima dell’introduzione dei concimi artificiali. La mancanza di stallatico veniva compensata, col sovescio (Grecia e Italia), col debbio (bruciatura delle stoppie: Gallia Cisalpina), o con spandimento di marna (Gallia). Ostacolava le possibilità di concimazione la limitata pratica dell’allevamento confinato (specie bovino), data l’assenza o l’insufficienza di piante foraggere per l’alimentazione del bestiame stabulato. Il bestiame reperiva il suo nutrimento sui pascoli liberi o nei boschi, quando non transumava durante la stagione estiva. Una limitata concimazione poteva aver luogo nei terreni a maggese, sui quali il pascolo, specie ovino, era liberamente praticato. La rotazione biennale a maggese era largamente praticata, per la cerealicoltura, sia in Grecia che in Italia, dove la pratica fu probabilmente importata dalla Grecia stessa attraverso la mediazione degli Etruschi (VIII-VI secolo). I campi a riposo andavano ripetutamente arati per impedire l’allignare delle erbe infestanti; ma era anche praticato il “maggese verde”, con avvicendamento fra i cereali e i legumi (esclusi i ceci), che ricostituivano, come agli antichi era noto, la fertilità del suolo. Il riposo a maggese poteva però risultare conveniente su superfici ampie e proprietà medio-grandi, a coltura estensiva; il piccolo proprietario, che disponesse solo di pochi ettari di terreno, non poteva concedersi il lusso di rinunciare ogni anno a metà del prodotto, con la conseguenza di un rapido esaurimento dei terreni.
Il ciclo cerealicolo si concludeva in giugno-luglio con la mietitura e la trebbiatura. La mietitura era praticata a mano, con falcetti, recidendo le piante, o alla base, o a metà stelo, o anche alla spiga; eccezionale fu l’uso della “mietitrice gallica”, una rudimentale “macchina agricola” spinta da asini o muli, che recideva le spighe raccogliendole nel contempo in un apposito cassone. Si trattò di una innovazione tecnologica in uso solo nelle regioni pianeggianti della Gallia settentrionale, a partire dall’età imperiale.
Per la trebbiatura dei cereali ci si avvaleva di un’aia (lat. area) in terra battuta, o lastricata in pietra, sulla quale avveniva, dapprima la sgranatura delle spighe tramite calpestazione animale (muli, bovini, cavalli) e battitura a mano con flagelli e correggiati; seguiva quindi la spulatura, che allontanava le paglie tramite la ventilazione naturale, o manuale, con vanni e ventilabri.
Complessivamente le rese dei seminativi rimasero molto basse e stazionarie durante tutta l’epoca greco-romana; in Grecia e Italia non vennero mai raggiunte le rese di 1:10 attestate per l’Egitto, dove il limo del Nilo rendava superflui concimazioni e maggesi; o addirittura rese di 1:12 o 1:15 attestate per la Mesopotamia. La resa media (rapporto semente : raccolto) in Grecia e Roma difficilmente superava il rapporto di 1 : 3; ciò significa che, accantonandone 1/3 per la semina successiva, il raccolto utile risultava non più del doppio del seminato. Nel migliore dei casi, veniva raggiunto a Roma un rapporto di 1 : 4. Del resto, ancora nell’alto medioevo, le rese non superavano l’1 : 3 per i cereali. Per superficie, si calcola che a Roma le rese produttive si aggirassero sui 10/1 q di cereale per ha.
Oddone Longo, 9 ottobre 2003 - In occasione del 250° Anniversario dei Georgofili
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COMMENTI (1)
Inviato il 30 luglio a 23:50
Breve storia dell'aratro.
L'agricoltura è nata tanto tempo fa. Forse 10.000 anni. Per prima cosa l'uomo riuscì a domesticare animali selvaggi e questo aiutò a renderlo sedentario. L'uomo, più o meno sedentario, iniziò ad osservare il ciclo delle piante, la loro crescita, la formazione dei fiori e dei semi, la risemina ed il nascere delle nuove piante, ed un uomo di genio se la ingegnò per raccogliere semi e nasconderli nel suolo ed aspettare la formazione di nuove foglie, semi e tuberi che in tal modo poteva ottenere nella quantità a lui necessaria e che poteva inoltre conservare per il resto dell'anno. Era nata la prima era dell'agricoltura.
Poi, un bel giorno, un altro genio immaginò di usare un residuo del tronco di un albero per aprire un solco e, per lavorare meno, fece trainare il tronco da uno dei suoi animali domestici o quasi. Era nato l'aratro di legno, che poi fu modificato in mille modi, col passare dei secoli.
Nell'età del bronzo si fecero aratri di metallo, che duravano più tempo ed erano qualcosa di simile a ganci che raschiavano la superficie della terra e, sempre col passare dei secoli, si unirono altre parti di legno, poi di metallo che rovesciavano il pane di terra, eliminando in tal modo le erbe spontanee dannose al raccolto. Passarono millenni e nel 1600-1700 DC gli aratri erano già quasi tutti di metallo e per di più potevano essere trainati da macchine a vapore e poi da trattori simili ai nostri moderni. Era la seconda era dell'agricoltura.
Poi, nei due secoli seguenti, l'agricoltura si sviluppò in maniera impensabile. Forse dobbiamo al genio di Mendel e di Pasteur, alle nuove specie vegetali venute dall'America, l'essere riusciti a rendere bugiarde le ipotesi di Malthus che promettevano fame, dovuta alle crescita in maniera geometrica della popolazione umana.
Oggi abbiamo l'ingegneria genetica e, presto, potremo fabbricare in laboratorio piante, o meglio organismi capaci di produrre gli alimenti a noi necessari, con le qualità che riterremo più opportune.
E l'aratro accompagnò sempre la crescita delle civilizzazioni. All'inizio realizzava un graffio sulla superficie del suolo, appena sufficiente a ricevere i semi. Poi l'uomo costruì aratri che lavoravano sempre a maggiore profondità, sino ad ottenere il taglio di una zolla sufficientemente profonda per essere rovesciata e seppellire così la vegetazione spontanea. Poi si volle ottenere una profondità di lavoro sempre maggiore per modificare la struttura naturale del suolo ed ottenere la penetrazione e conservazione delle piogge in profondità ed esporre all'aria, all'ossigeno e al calore dell'estate le zolle ed ottenere la loro disgregazione e la solubilizzazione delle sostanze nutritive. E In tal modo aumentava l'erosione del suolo e si andava verso la desertificazione e desertizzazione di sempre maggiori superfici.
Quanto accadde nella prima metà del '900, in America del Nord, generò un allarme mondiale e maggiore interesse per l'erosione eolica e finalmente si cominciò ad intendere che forse era meglio non modificare la naturale struttura del suolo e che le piogge potevano essere conservate in profondità mantenendo la superficie coperta con residui vegetali .
E si parlò di riduzione delle rimozioni del suolo con un minimo di lavori, e si usarono aratri di nuove forme, aratri a disco, erpici ed altri attrezzi, sempre con l'idea che il suolo doveva essere rimosso dall'uomo per fare infiltrare l'acqua della pioggia ed aumentare la fertilità.
Ma alcune semplici esperienze e l'uso di erbicidi per controllare la vegetazione spontanea, dimostrarono quanto fossero sbagliate quelle idee che dominarono per millenni l'agricoltura. La migliore struttura del suolo è la naturale, che permette, inoltre, la facile penetrazione delle radici. La migliore infiltrazione e conservazione dall'acqua di pioggia si ottiene lasciando in superficie i residui delle coltivazioni, come avviene nei boschi.
E nacque la semina diretta o labranza cero o no tillage o sod seeding che, con la fitotecnica, l'ingegneria genetica e la fitochimica domina l'attuale agricoltura.
E l'aratro fu abbandonato, arrugginito ed ormai inutile, in un angolo del campo.
Marcelo Fagioli.
[email protected]