Aguirre di Herzog/Kinski. Una storia che non potrà più essere raccontata

Creato il 21 giugno 2011 da Spaceoddity
Aguirre. Il furore di Dio (1972) è, innanzitutto, uno dei film più potenti che io abbia mai visto: una vortice di lava sotto una vernice quasi idilliaca. Una metafora sulla ricerca della felicità e delle sue forme, un'allegoria dei cammini attraverso in cui l'inquietudine sfocia nella morte e in una vita come vuoto. Il secondo incontro con Werner Herzog alla regia e con Klaus Kinski non poteva essere più impressionante.
Aguirre narra una storia vera: quella di una spedizione che insegue il mito di Eldorado attraverso la foresta amazzonica attraverso le rapide e i misteri di fiumi che si gonfiano di sangue e di irruenza, di bellezza e d'incontenibili silenzi, di pause misteriose che celano serie ragioni di paura.
Aguirre non è la vicenda più o meno romanzata di un'esplorazione: Herzog vi traspone piuttosto in modo estremamente crudo e feroce il frammentarsi di una ricerca, di un'idea lungo i canali attraverso cui scivolano passioni torrenziali al disgelo dal torpore corrotto dell'ubbidienza. Il protagonista si avvita in una furia plastica del suo potere: lascia l'oro ai servi, tiene per sé il progetto di un mondo che non può non essere un impero: grande, infinito, ricchissimo, ma soprattutto intrinsecamente aristocratico, dove non sono pensabili uguaglianza e libertà.
Nel lungo monologo conclusivo, di impatto shakespeariano, in un sublime piano sequenza, Aguirre eleva la sua sismica brama di potere a sistema di vita in un orrendo e insensato progetto eugenetico, mentre la sua zattera viene invasa da piccole scimmiette urlanti, specchio di inattingibile vanità in quest'apocalissi mistica di un potere che non conosce arte, né regole. Un misticismo monodimensionale, quello di un uomo che non vede oltre se stesso, tradendo ab imo la dimensione ascetica con cui sembrava aprirsi il film e rivoltandola in una catabasi infinita.
Gli sguardi di Klaus Kinski, la forma irregolare della sua bocca, la smorfia di dolore e di assetata infelicità fanno il paio solo con un regista che guida lo spettatore a vedere o a non vedere sempre e comunque ciò che lui vuole, con un'esattezza che ferisce. Inquadrature precise, immagini nitidissime, il distacco etico e tecnico del documentarista che, con un esito ugualmente bello che in Kim Ki-duk, in realtà ci regala un film che è un'opera d'arte.
Aguirre non è un film per tutti: sa essere incredibilmente crudele e non manca di fornire seri motivi di riprovazione e di rifiuto (penso, in particolare, all'apologia di certi alibi troppo "accomodanti" e utilitaristi all'interno della Chiesa). Herzog porta avanti una sua peculiare religione della morte che troverà in Woyzeck nel 1979 la sua più complessa trasfigurazione metafisica e morale. Il suo cinema è divorato dai dubbi, dall'irrequietezza di fronte alla vita com'è, un sismico rifiuto della normalità in nome di un titanismo sfacciato ed elementare. L'uomo rimane solo, rimane uomo nel volersi fare più simile a un dio, al dio per cui dovrebbe pregare. Herzog parla dell'uomo, dell'uomo dopo averlo masticato, ma l'uomo c'è. C'è l'uomo in Herzog.

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