Ma di questo prolifico e poliedrico autore, le Edizioni Q nel 2012 avevano tradotto Il paese del mare (a cura di A. Isopi), ed è di questo libro che voglio parlare qui.
Ogni anno, quando arrivano aprile e maggio sento il profumo del mare. Del "mio" mare, quello della Calabria jonica, terra di cui è originaria la mia famiglia, in cui ogni estate da quando sono piccola mi immergo senza potergli resistere. È un richiamo intimo e potente, che mi riporta alle cose importanti della vita, che nella metropolitana Roma si perdono tra clacson, grida e smog. Mi immagino il profumo dello iodio, del pane appena sfornato, dei gelsomini così dolci che ti strappano il cuore, dello zucchero dei biscotti cotti al forno, del pesce azzurro appena pescato, del rosmarino selvatico, fresco a pungente.
E quando arriva questo sospiro d'estate l'unica cosa che vorrei fare è prendere il primo treno e scendere giù per l'Italia e tuffarmi nel blu dello Jonio.
Mi è stato quindi facile immedesimarmi nel padre del protagonista del libro Il paese del mare, pur non condividendone le sfortunate sorti: originario della Cesarea, ormai diventata territorio israeliano, egli può solo puntare il naso e odorare il ricordo del suo mare, che suo non è più. Alla ricerca del profumo del mare, al calar della notte il padre di Ahmad Ibn Masud si trasforma in un grosso istrice e si tuffa nella boscaglia, percorrendo chilometri e chilometri in direzione di Acri e Cesarea, invisibile agli uomini:
Di notte mio padre si trasformava in un istrice, percorreva i deserti e le steppe, calpestava le colline e le alture, fiutava i profumi delle valli e delle loro profondità [...].
La terra la conosci solo con il naso. Mio padre di notte si trasformava in un istrice mentre inseguiva l'odore del mare, che di notte è più forte.
[...] mio padre, che dopo il 1948 non faceva più affidamento sulle case, sui muri e sulle abitazioni, non appena vide il sole immergersi nella sua incredibile vasca violacea diventò un istrice ricoperto di aculei affilati.
Il paese del mare è un libro estremamente poetico, ma dal respiro onirico: in esso il protagonista, il giovane Ahmad Ibn Masud, ripercorre nei suoi sogni, mentre dovrebbe sorvegliare i campi paterni, la storia della Palestina accompagnato da un personaggio storico eccezionale: il condottiero e poeta Abulfida, che fu re di Hama e partecipò all'assedio di Acri che si concluse con la riconquista della città ai crociati. Nel sogno Abulfida si presenta sotto le sembianze di un enorme Rukh, un uccello mitologico, che afferrando con gli artigli il giovane Ahmad, lo trasporta tra le epoche storiche della Palestina, facendogli incontrare personaggi storici realmente esistiti e facendolo assistere a battaglie ed assedi. Con lui, Ahmad discute e si interroga sul futuro della Palestina e dei palestinesi oggi, assediati in ogni luogo da coloni, checkpoints e militari che hanno stravolto completamente la geografia del paesaggio palestinese.
Il libro contiene anche una critica molto forte, e forse esasperata, nei confronti dell'Occidente, identificato come un monolite dalla stessa mentalità, che dovrebbe assumersi la responsabilità di fare pressioni su Israele affinchè tratti un accordo di pace con i palestinesi. Senza le pressioni occidentali, è convinto l'autore, Israele non tratterà mai.
L'impianto onirico, il passaggio continuo tra sogno e realtà, il personaggio di Abulfida e l'ambientazione storica mi hanno ricordato il capolavoro di Raymond Queneau, I fiori blu, in cui la realtà del protagonista si fonde inestricabilmente con il sogno, creando un quadro in cui è quasi impossibile capire se a sognare sia l'incorreggibile Duca d'Auge o il vecchio Cidrolin, emblema della staticità dell'uomo moderno.
Il romanzo è pervaso da un sentimento di nostalgia e malinconia davvero struggenti. Lo si sente, forte, quando il padre di Ahmad, al ricordo di ciò che ha perso dopo il 1948 non può far altro che piangere lacrime amare:
"Mio padre indicò il suo cuore e pianse. Quando il paese svanisce, ogni cosa svanisce con esso" - e rifugiarsi nei ricordi: "Cosa resta di me se dimentico Cesarea?".
Lo si sente, fortissimo, quando la Palestina viene descritta come una terra in cui "il sapore della stessa esistenza viene messo in discussione".
Le pagine sono un tripudio di profumi, odori e colori: dalla salvia (che porta con sè il profumo delle madri), alla ginestra e al mirto, dall'albero di ulivo a quelli di pino e china. Il paesaggio è quello mediterraneo, che a noi italiani è molto familiare ed è reso, linguisticamente parlando, dall'uso di molti aggettivi, sempre pertinenti e diversi, e a un lessico dolce e caldo, che abbraccia il lettore e lo trasporta con l'immaginazione verso est, sulle colline palestinesi, in mezzo ai campi, nelle case dove si cucina la zuppa di "luffa velenosa".
Quello che più mi ha colpita però è stato lo scoprire, pagina dopo pagina, l'esistenza di un sentimento panico della natura che lega i palestinesi alla propria terra. Nel libro, gli uomini sono completamente immersi nella natura che li circonda e non è solo una questione di rispetto, no, perchè il rispetto implica in qualche grado una forma di distanza tra l'oggetto del rispetto e il soggetto.
Nelle parole di Rafiq Awad invece, l'uomo è un tutt'uno con le rocce, gli animali, la terra, gli alberi:
Gli uccelli volano e niente li afferra nel cuore del cielo. Riesci a vedere, ad ascoltare, a percepire il cuore del cielo? Cos'è questo cuore del cielo? È la forza, la libertà, l'elevatezza. Voglio essere un uccello per volare sopra tutta la Palestina.
Mio padre mi ha insegnato l'amore per i grilli, per le formiche e per i pidocchi e mi ordinava di non ucciderne alcuno, poiché queste creature suscitano meraviglia. Ognuna di esse è un capolavoro di creazione e inventività; come osiamo ucciderle?
L'olismo uomo-natura fa parte della realtà quotidiana: " In Palestina amiamo la nostra terra - mi ha detto in una breve intervista l'autore. " Ma, la parola amore non può contenere tutta la potenza del significato di quello che vorrei dire. I palestinesi danno un nome agli alberi, animali, da sempre, perchè la terra è l'identità dei palestinesi. La natura è il libro dei palestinesi. In Palestina diamo un nome perfino alle rocce, perchè vivono con noi, fanno parte della famiglia ".
Rafiq Awad si sente il cantore delle storie palestinesi: "Racconto le loro storie perchè sono anche le mie", mi ha detto ancora.
" Le loro storie, il loro patrimonio, i loro dolori, il loro sangue è dentro di me, nel mio cuore. Il mio ruolo come scrittore palestinese è quello di dire che i palestinesi sono persone vive, che possono dare un contributo a tutto il mondo, perchè quello palestinese è un grande popolo ".
Il paese del mare è un libro di storie, che si può leggere anche solo un pezzo per volta.
Potete lasciarlo sul comodino e riprenderlo quando vi verrà voglia di cose buone: del profumo della salvia, dell'odore del mare, o quando non saprete togliere gli aculei lanciati da un istrice impaurito che, nel cercare l'odore del mare, vi ha attraversato la strada in una notte estiva dalla luna rotonda.