Latitudini in ferro di un globo fatto di aria: ogni anno vengono trapassate come ferite di luce da un sole che per giorni non scivola mai sotto la linea dell’orizzonte. Capo Nord è il punto più a Nord dell’Europa raggiungibile da esseri umani, una falesia a picco sulle acque del Mar Glaciale Artico.
Il ciclismo ha sempre avuto il desiderio sanguigno di rasentare la leggenda. E’ la natura di questo sport: l’uomo e la bicicletta hanno un rapporto mistico e intimo che fa intraprendere viaggi infiniti sulle strade di mondi sconosciuti. Non erano mai arrivate lì così tante biciclette, prima di oggi. Il silenzio infinito di quell’ultimo pezzo di mondo è stato rotto dal frusciare inesorabile delle ruote, dai rumori della corsa, da quello strano tramestio del gruppo che avanza. La prima tappa dell’Arctic Race of Norway è finita lì dove anche tutto il resto finisce. Dove nessuno aveva mai pensato di mettere la linea bianca di un arrivo. Ai confini del mondo.
Matthias Brandle ha il sorriso luminoso e aperto di uno del nord anche se è nato in Austria e ha occhi grigio verdi che con il sole prendono il colore di certe aurore boreali che squarciano i cieli stellati. Occhi che forse oggi, dietro gli occhiali, sono quasi grigi come l’infinita terra attorno a lui, nel tentativo di arrivare solo a Capo Nord. Grigio anche il cielo, sopra quella strada che fino a quel momento aveva conosciuto solo il vento e il freddo di quel territorio quasi lunare. Nessuna casa, nessun albero. Chilometri di terra di nessuno nella natura incorrotta e infinita. Nelle terre selvagge, avrebbe detto Chris Mc Candless, spirato in Alaska dopo anni alla frenetica e appassionata ricerca della vita libera, in mezzo alla natura che non aveva conosciuto la mano dell’uomo.
Mancano forse quattordici chilometri. Pochi e tanti in mezzo a quel niente infinito, con la speranza di poter arrivare per primo laggiù, dove la realtà ha i contorni che sbiadiscono nella leggenda, con il vento come solo compagno. Matthias si curva sulla bici, si stacca dal sellino, appoggia quasi la faccia al manubrio. Vuole ancora più secondi perché quelli che già aveva stanno scivolando via. Sono una manciata senza sicurezza. Sabbia in quella specie di tundra che lo circonda e fa pensare davvero di essere lontani da tutto, fuori dal mondo. Dieci chilometri e poi nove, otto. Ma il vento porta il fiato del gruppo che è lì, dietro di lui. Ai piedi dell’ultima salita finisce il suo viaggio solitario, tutto torna compatto e la grande carovana torna a covare le azioni in silenzio. Piccole grandi strategie per tagliar fuori i velocisti o per agevolarli. Tutti in gruppo e ognuno per sé, per la sua squadra. L’ultima salita è infida, forse perché è la prima volta che il ciclismo internazionale prova a scalarla. E di quello che non si conosce si ha sempre un po’ paura.
Lars-Petter Nordhaug è nato in Norvegia, in un piccolo paesino nella contea di Oplland. Queste sono le sue terre, dove la gente intabarrata nei giubbini antivento fa sventolare le bandiere nazionali. Mentre pedala nel gruppo che sta affrontando la salita, mentre il cielo continua a essere grigio all’orizzonte, sa che attaccare è la sua unica possibilità di arrivare lassù da solo. Forse tutti si aspettano che parta, sentono nell’aria quell’attacco che non arriva. Nelle cose bisogna avere pazienza, forse nel ciclismo bisogna davvero aspettare quel momento in cui tutto dice “vai!”: testa, gambe e anima. Lars-Petter se ne va quando nessuno se l’aspettava più. Nessuno ha la forza di andarlo a riprendere, va dritto verso la fine del mondo. Dritto verso quelle latitudini che plasmano un globo invisibile e, come scheletro di una lampada senza cartapesta, lasciano intravedere il mare gelido del profondo nord.
Trecento metri, l’ultima lingua di asfalto prima della linea bianca. L’ultimo sforzo, l’ultima espressione di dolore prima di portarsi vicino la mano chiusa a pugno e baciare l’anello, prima di alzare le braccia al cielo. A quel pezzo di cielo che si curva sull’ultimo barlume di civiltà.
C’è la gente che lo applaude, tanta gente attorno alle transenne che contrasta con il silenzio che c’è al di là dello strapiombo di quella falesia. C’è qualcosa di sciamanico e forse viene dalle leggende dei sami: raccontano che questa terra abbia una energia speciale. Un alone che con il ciclismo ci va d’accordo perché è sempre stato uno sport diverso dagli altri. D’istinto, di sensazioni, di veggenze. Le modernità non hanno spazzato via il suo rapporto ancestrale con la natura, il desiderio inafferrabile del viaggio, di esplorare nuove strade.
Stanotte tornerà il silenzio su quell’ultimo baluardo roccioso. Forse torneranno le stelle. Ancor più infinite e palpitanti sopra quella strana frontiera. Una delle tante leggende dice che le aurore boreali scaturiscono dalla coda di una volpe che corre sulle alture artiche. Il contatto della sua morbida pelliccia con la neve accenderebbe il cielo. Pare che questo arcobaleno notturno, in Norvegia si chiami “Guovssahas“, “luce che può essere udita”. Ecco perché il ciclismo sta bene anche lì, è uno sport che affina i sensi, li sensibilizza, li educa alle piccole cose belle che vale la pena assorbire per tenere con sé.
Stanotte tornerà il silenzio, come in tutti i luoghi dove le biciclette arrivano e se ne vanno. Resterà quella linea bianca di confine, un po’ come una di quelle bandiere che si piantano nel terreno per dire che si è arrivati fin lì, ai confini del mondo, dove nessuno aveva pensato di mettere un traguardo. E allora si potrà dire che è vero: un arrivo è dovunque vogliamo andare, dovunque abbiamo la forza di spingerci. Più in là, fino ai confini delle nostre paure vuote come un mappamondo invisibile, pronti a essere invasi dalla luce di un sole che non conosce l’orizzonte.