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AI CONFINI TRA JAZZ E ROCK #musica #jazzrock #fusion

Creato il 20 aprile 2014 da Albertomax @albertomassazza

jazz rockNonostante le radici comuni, non si può di certo dire che tra jazz e rock ci sia stato un amore a prima vista. La differenza di età, circa mezzo secolo, ha giocato il suo ruolo nella diffidenza con cui il jazz ha guardato il genere più giovane. Tanto più che, pur nascendo da una tradizione popolare marginalizzata come quella afro-americana, già dagli anni venti il jazz aveva attirato l’attenzione di musicisti colti europei come Ravel, Satie, Milhaud, Shostakovich, Stravinsky, mentre, sull’altro versante, Gershwin ed Ellington portavano avanti la rivendicazione di pari dignità per la musica afro-americana. Così, quando il rock’n’roll emise i primi vagiti, il jazz era già un genere che poteva guardare negli occhi i più raffinati compositori provenienti dall’ambiente accademico: celeberrimo e paradigmatico l’episodio che vide Gershwin chiedere umilmente lezioni a Ravel, con l’autore del Bolero a motivare il suo netto rifiuto dicendo che un Gershwin originale valeva molto di più di un’imitazione di Ravel.

Un altro motivo della diffidenza con cui il fratello maggiore guardò inizialmente il rock’n’roll fu senz’altro sociale e politico. In primo luogo, gli interpreti bianchi ebbero un’importanza almeno pari ai neri nell’affermazione del nuovo genere, mentre il jazz ebbe, almeno dalla nascita fino all’emancipazione degli afro-americani, una forte connotazione razziale. Neri, immigrati europei, nativi americani, ebrei erano tutti esponenti di culture emarginate che, attraverso il jazz, volevano affrancarsi dalla subalternità. Nel rock’n’roll e nella prima generazione del rock le rivendicazioni, più che razziali o culturali, erano generazionali: i teen-agers alzavano la testa e rivendicavano il diritto di godersi la vita alla luce del sole. Di conseguenza, alla sofferta introspezione esistenziale del jazz, il rock’n’roll contrappose un edonismo di forte impatto rappresentativo, poco interessato all’affermazione della dignità controculturale, ma deciso a conquistarsi il suo posto al sole nella commercializzazione (sotto)culturale di massa.

La prospettiva mutò dalla metà degli anni ’60, quando giovani musicisti infiammati dal rock’n’roll e dal rock delle origini iniziarono a sentirsi troppo stretti nelle strutture semplicistiche e nelle superficiali tematiche della musica giovanile. Dapprima si assistette alla frammentazione della ritmica canonica in 4/4; successivamente, ci si rivolse con crescente attenzione verso l’improvvisazione e la sperimentazione del Free jazz che, proprio in quegli anni, stava rivoluzionando il panorama jazzistico. Contemporaneamente, musicisti provenienti dal folk di protesta si rivolsero al rock per veicolare i loro messaggi d’impegno civile verso un pubblico giovanile sempre più ampio. Da queste basi di partenza, si avviò la stagione più valida artisticamente del rock che, nel volgere di un decennio, passò da fenomeno giovanile a espressione artistica e culturale a tutto tondo, con la fioritura creativa psichedelica, progressiva e jazz-rock. Sull’altro versante, l’attenzione di un jazzista fondamentale come Miles Davis verso il rock psichedelico di Jimi Hendrix e il soul-funky di Sly Stone e James Brown portò al definitivo sdoganamento del pop-rock in ambito jazzistico, con la creazione di un nuovo genere infelicemente denominato Fusion (come se il rock, il jazz e ogni altro genere musicale moderno non fossero già di per sé fusioni di stili), che poi non era altro che jazz-rock affrontato da una prospettiva jazzistica, spesso con eccessi di freddo formalismo e malcelate strizzate d’occhio al pop più commerciale.



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