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A.I. Artificial Intelligence (2001) di Steven Spielberg è un film costruito per coinvolgere fino allo strazio. L'abitudine di un certo cinema americano di toccare le questioni più delicate con una concretezza disarmante ne fa un campionario di problemi etici che da solo basterebbe a popolare interi corsi di filosofia morale. Lo strumento attraverso il quale questo processo si compie è la domanda, non a caso spesso senza risposta, che i personaggi si rivolgono l'un l'altro. Qual è la differenza tra l'uomo e la macchina? Cosa può fare dunque la macchina per essere più simile all'uomo? E qual è, a questo punto, la responsabilità dell'uomo nei suoi confronti? Non si tocca, o almeno così sembra, il problema più radicale, ovvero la ragione per la quale la macchina debba assomigliare sempre più all'uomo. Non potrebbe limitarsi a svolgere dei compiti e basta? Deve per forza integrarsi, mimetizzarsi, sparire nella sua essenza di macchina? In realtà, il A.I. di Steven Spielberg implicitamente risponde quando fa ricorso ai sentimenti: l'uomo non può amare altro che l'umano. Cerca l'umano, insegue l'umano.
Ecco che ci troviamo con la sorpresa della tecnologia di fronte all'amore. Come reagisce? Posto che l'elettronica viene sempre configurata in quanto tale - e anzi l'impietoso episodio centrale della Fiera della carne ce la esibisce nella sua brutalità - i sentimenti appaiono ancora qualcosa di indefinito, di inafferrabile, di misterioso e un po' vago. Eppure il Prof. Hobby e il suo staff riescono a creare questo legame tra la circuiteria e l'anima, facendo sì che - attraverso una particolare procedura - sia l'amore a "formattare", a dare l'imprinting all'elettronica. I sentimenti sono dunque l'elemento in più, quel quid che fa di un meccanismo raffinatissimo di conservazione, scambio ed eleaborazione dati un essere in tutto e per tutto indistinguibile dall'uomo. Rimane la "macchina" l'unico strumento che possa discriminare, che possa riconoscere il suo simile; l'essere umano, per conto suo, rimane abbagliato dalla forza un po' romantica dei sentimenti e dei suoi bisogni, delle sue pulsioni e del suo egotismo.
Si aggiunga, per avere un quadro più completo della situazione creata da A.I. di Steven Spielberg, che la tecnologia viene presentata come immortale, immune agli effetti del tempo: la si può superare, perfezionare, ma anche riparare con semplici sostituzioni (lo stesso tema sarebbe stato affrontato, in forma meno opprimente, nel 2005 dal cartone animato Robots). Quello che conta è lo scopo: ciò che fai, non ciò che sei. Nella logica strumentale, un oggetto che funzioni va sempre bene. Lo stesso doveva potersi dire di David, sennonché l'amore scatena nel bambino-mecca una serie di domande sulla sua identità, sul bisogno di unicità che ciascuno di noi ha di fronte all'altro, specie nell'affetto dei genitori (veri o presunti che siano). Quest'aspetto diventa ancora più complesso e drammatico quando David si trova a confrontarsi con un altro aspetto dell'unicità; il bambino è di fatto un prototipo, è un pezzo che non ha eguali, quindi non si può riconoscere e non può essere sostituito (un discorso analogo può farsi sul finale, che però non rivelo qui). Ma essere primi è una cosa, essere speciali è ben altro. Quanto era una legittima aspettativa del bimbo-mecca, riconoscersi nell'altro e nello stesso tempo stagliarsi con la sua unicità, viene frustrato irrimediabilmente, causandogli di collasso emotivo.
Come se ciò non bastasse, un'ulteriore dimensione è data dall'elemento fiabesco, vero asse portante della seconda metà del film. Dal bamboleggiante parlare in rima di Gigolo Joe alla ricerca della Fata Turchina che possa ripetere il miracolo compiuto con Pinocchio troviamo un altro elemento che allontana la realtà dall'artificiale. David, che aveva promesso alla madre Sarò verissimo per te, si chiede quand'è che un fatto sia vero. E, naturalmente, cosa vuol dire "reale"? Il problema con A.I. è che buona parte di tali problemi così delicati - in particolar modo gli affetti familiari, peraltro tipici del cinema di Spielberg, a prescindere dal progetto di Stanley Kubrick, e le questioni etiche - si risolvono in un asfissiante questionario che sembra non avere mai fine. Ho cercato di ridurre al minimo il nucleo centrale di un film appassionante e - sul piano visivo - meraviglioso, ma già così mi sembra che la densità di A.I. sia quasi eccessiva per due ore e venti di film. Il tempo scorre attraverso una serie di episodi ben costruiti - e dietro non si può disconoscere la maestria di uno scrittore come Brian Aldiss - ma rimane un po' la sensazione che l'accavallarsi di problemi su problemi stenti a costruire un quadro dal quale ricavare delle risposte, anche solo provvisorie e parziali.
D'altra parte, devo dirlo, è questo il contributo più prezioso che la vera fantascienza ci offre, il riproporsi del problema ontologico e del problema cognitivo posti sulla base dell'assetto esistenziale dell'uomo industriale contemporaneo, dell'uomo di massa. È un peccato e un gravissimo spreco culturale il fatto che la science fiction sia da molti ancora etichettata come evasione e che addirittura sia ormai un genere in forte declino, in termini di vendite e confronto pubblico. Trovo che recuperarla ci aiuterebbe a confrontarci meglio con la realtà di oggi e con i suoi problemi.
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