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Ai Weiwei: quando l’arte è più forte del silenzio.

Creato il 09 ottobre 2015 da Nebbiadilondra @nebbiadilondra

Che Ai Weiwei (nato nel 1957) fosse un artista scomodo lo si sapeva, che il governo cinese non si sarebbe dato la pena di demolire il suo studio di Shanghai nel 2010 se non lo fosse stato. Che fosse così scomodo da essere stato imprigionato per 81 giorni nel 2011 in una cella di massima sicurezza senza finestre guardato a vista da due guardie (anche quando andava in bagno) a cui era categoricamente vietato comunicare con lui ha a dir poco dell’incredibile. Il reato? L’aver parlato apertamente dell’ingiustizia e della corruzione che regnano sovrane nel suo paese.  L’essere costretto in uno spazio angusto con la costante, silenziosa e (soprattutto) non richiesta compagnia di due sconosciuti è una violenza incredibile, una vera e propria tortura. Io sarei impazzita dopo un giorno. Ma Ai Weiwei no. E una volta uscito è riuscito, nonostante la continua sorveglianza a cui era sottoposto, a riprodurre meticolosamente l’interno della sua cella in una serie di installazioni in scala ridotta intitolate S.A.C.R.E.D. 20111-1013 – installazioni che ho trovato profondamente inquietanti e non solo perché soffro di una leggera claustrofobia.

Ai Weiwei, S.A.C.R.E.D. 2011-2013. London, 2015 © Paola Cacciari

Ai Weiwei, S.A.C.R.E.D. 2011-2013. London, 2015 © Paola Cacciari

Ho fatto la conoscenza di questo incredibile artista proprio nel 2011, quando il museo in cui lavoro gli ha dedicato un display nelle Ceramics Galleries da titolo Ai Weiwei: Dropping the Urn (Ceramic Works, 5000 BC–AD 2010). E se all’inizio non ero particolarmente convinta che il gesto filisteo di distruggere reperti archeologici fosse arte, il lavorare ripetutamente in quelle sale per otto ore al giorno mi ha fatto cambiare idea. Che se ancora sono contraria alla distruzione di un vaso antico (sarei stata una buona restauratrice mi disse anni fa una restauratrice…) se non altro ora comprendo l’idea e la politica dietro questo gesto, che è fondamentalmente la condanna della Cina contemporanea che non si fa scrupolo di distruggere la sua storia passata davanti al progresso e alla modernità. Non sorprende che la Cina non lo lo ami.

Alla mostra che la Royal Academy gli ha dedicato, Ai Weiwei ha lavorato – almeno inizialmente – dalla Cina. Non per scelta, ma perché nel 2011 le autorità cinesi lo avevano arrestato all’aereoporto di Pechino con l’accusa (flebile) di frode fiscale e gli avevano ritirato il passaporto. i sono voluti cinque anni, 81 giorni di prigionia e innumerevoli raccolte di firme in tutto il mondo perché l’artista cinese potesse riottenere, insieme al suo passaporto, anche la possibilità di viaggiare e accompagnare così le sue opere alla mostra della Royal Academy, un’istituzione di cui è stato eletto membro onorario dopo il suo arresto nel 2011 come gesto di solidarietà da parte dei suoi compagni artisti e architetti.

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Ai Weiwei, Dropping the Urn. 2015 © Paola Cacciari

Che per Ai Weiwei arte e attivismo sono la stessa cosa, e tutta la sua arte parla delle condizioni della Cina anche quando indossa i panni del ready-made modello Duchamp (che non per niente era il suo eroe quando il giovane Ai studiava a New York negli anni Ottanta) come il gigantesco lampadario fatto di biciclette argentate – la bicicletta uno degli oggetti più tipici della Cina. Ma se Ai crea (o ri-crea), non esita anche a distruggere.

E infatti qui ho ritrovato i famosi vasi della Dinastia Qing coperti di vernice di Dropping the Urn e ho fatto conoscenza con le inquietanti Surveillance Camera and Video Camera, copie a grandezza natural delle telecamere installate dal governo cinese attorno al suo studio, una volta tornato il “libertà”, sebbene realizzate in marmo, il materiale “nobile” della Cina.

Ai Weiwei, Straight 2008-12. 2015 © Paola Cacciari

Ai Weiwei, Straight 2008-12. 2015 © Paola Cacciari

Per Ai Weiwei l’atto di onorare i morti è importante come l’arte stessa, anzi forse di più. Certo il pezzo più agghiacciante dal mio punto di vista è quello che occupa la sala più grande di Burlington House, un’installazione composta da duecento tonnellate di barre di ferro raccolte, raddrizzate una per una, a mano e ammassate con pazienza da certosino dall’artista e dai suoi assistenti. Si chiama Straight 2008-12 e tratta di in omaggio alle oltre cinquemila vittime, perlopiù bambini, del terremoto di Sichuan del 2008 che causò il crollo di venti scuole – le stesse da cui provengono le barre di ferro. Scuole costruite al risparmio da una classe politica corrotta che si è arricchita con il sangue di 5000 persone innocenti.Vi ricorda qualcosa??

Londra// fino al 13 Dicembre 2015

royalacademy.org.uk


Archiviato in:arte contemporanea Tagged: Ai Weiwei, arte contemporanea, ceramica, Cina, Dadaismo, Londra, mostre, politica, recensioni, Royal Academy

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