Praticando aikido al dojo Seishinkan di Amburgo per dieci giorni, lo scorso Gennaio, ho avuto modo di riflettere molto sul mio aikido per poi condividerlo col mio Sensei Stefano sperando di dare un impulso alla crescita di tutto il dojo di Leno in cui pratico. Impulso senz’altro colto e messo in pratica fin da subito. Impulso che dopo alcuni mesi e varie esperienze posso concludere sia stato positivo. Ora ti chiederai quale sia e la risposta è presto data: una maggior accezzione marziale al lavoro fatto sul tatami. Già da quando Eckardt Sensei è venuto in Italia per tenere uno stage ho cominciato a riflettere sul senso dei movimenti che praticavo durante le lezioni e rispetto alle sue parole e al suo modo di praticare sentivo che mancava qualcosa, sensazione confermata durante la permanenza ad Amburgo e fortunatamente presto colmata.
Guardando da fuori un aikidoka si può pensare che i movimenti siano falsi, progettati a tavolino per dare un senso di efficacia ad un balletto. Beh… ciò è totalmente sbagliato a mio modestissimo parere. L’aikido ha una piena e giustificata accezzione marziale e a dirla tutta anche parecchio distruttiva volendo. I movimenti delle mani che ricalcano i mortali tagli della katana, leve articolari che se portate con la giusta intensità possono rompere le articolazioni, i taisabaki, l’estrema e rapida mobilità del corpo che permettono di mettersi sempre in posizione di vantaggio e dominare l’avversario impedendogli di contrattaccare, tecniche che possono essere facilmente indirizzate ai punti vitali.
Ebbene sì, anche l’aikido deriva da questo: dall’arte della guerra e dai metodi che gli antichi guerrieri usavano per sopravvivere sui campi di battaglia, in tempi in cui la pace era un bel miraggio, un sogno utopico e in cui uccidere significava vivere e vedere il domani…
Mors tua Vita Mea
Si Vis Pacem, Para Bellum
Fortunatamente viviamo in un paese in cui la guerra è lontana e non abbiamo necessità di diventare dei Rambo per camminare in strada (anche se alcuni episodi spiacevoli di delinqueza farebbero pensare il contrario). Eppure ritengo che non sia giusto snaturare l’aikido di una parte fondamentale come la sua componente marziale. Poco importa a mio avviso che l’aikido sia stato strutturato nell’ultimo periodo di vita del Fondatore O’ Sensei Ueshiba come arte della pace. Questo è il fine ultimo, ma per raggiungerlo credo che si debba passare per forza di cose dalla sua natura originaria di arte della guerra (ovviamente contestualizzando il tutto nel periodo storico senza estremizzazioni).
Chi meglio di colui che ha visto l’orrore della guerra può capire il valore della pace e desiderarne la realizzazione?
Chi più di colui che ha visto la morte può desiderare la vita?
Come faccio a praticare seriamente aikido se manca completamente l’atteggiamento marziale degno di tale nome che, bada bene, non significa avere gli occhi insanguinati, le vene del collo in procinto di esplodere e i bicipiti tesi come un elastico. Perchè dovrei anche solo pensare di fare qualcosa, anche solo spostarmi con un taisabaki, se chi mi sta davanti è “minaccioso” come un orso di peluche?
Fermo restando i vari obiettivi didattici di volta in volta studiati in una lezione che possono far variare molto l’attidudine alla pratica della singola lezione (sto praticando con principianti, studiando lo squilbrio o Il movimento corretto o il tempo giusto, ecc.) ritengo comunque che una cosa debba essere imprescindibile e che non debba mai mancare. Ovvero l’intenzione e la sincerità in ciò che si sta facendo, sia come uke sia come tori. Capiamo subito che esiste un abisso tra cercare il punto di squilibrio, il momento e la distanza giusta per applicare la tecnica su un compagno che, senza fare il toro infuriato, ti da sensazione di stabilità ed equilibrio che avanza con la voglia di metterti nella giusta difficoltà e cercarli con uno che è già in terra ancora prima di iniziare a muoversi. Che insegnamento e che divertimento ci può essere nel praticare come e/o con una medusa?
Ecco allora che in questa differenza sta il cammino intrapreso. La differenza pratica sul fare aiki-DO oppure aiki-DANCE.
Fare aiki-DO significa entrare in un dojo indossando un simbolo di virtù per seguire un sentiero in salita irto di ostacoli contro cui sbattere, buche in cui cadere, sudore e lacrime da versare e sangue da sputare. Ogni metro è più difficile del precedente e il traguardo non esite, non esiste meta ma l’obiettivo è unicamente quello di migliorare giorno dopo giorno, di cadere e poi rialzarsi all’infinito più forte di prima. Fare aiki-DANCE significa andare in palestra con un vestito anacronistico per fare movimenti fini a se stessi con obiettivi molteplici che vanno dal trovare l’anima gemella, al dimagrire o al passare un’ora facendo qualcosa di diverso dallo zapping televisivo, possibilmente orientale dal vago sapore new age che male non fa quando ci si vanta con gli amici. Ma questa pratica è vuota e banalizza un qualcosa che ha radici storiche, filosofiche e degli obiettivi molto più alti e profondi.
Il confine tra aikido e aikidance è sottile e spesso a mio avviso ci si ritrova ad attraversarlo inconsciamente. Sta quindi a noi, al nostro Sensei e ai nostri compagni impedirci di farlo, impedirci di lasciare il sentiero. Tutto ciò non è facile, è uno stato mentale che va allenato ogni volta che si pratica.
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