di Luigi De Rosa
Ricordò il rombo tremendo che le ferì i timpani stordendola,poi il buio,un attimo dopo,tremò, come foglia al vento, per l’acqua gelata che l’abbracciava,ricordò le grida delle altre,la fusta che si inclinava, la poppa in alto,un ultimo tentativo dell’imbarcazione di resistere al mare e poi giù, sembrò volersi portare all’inferno tutto quello che le stava intorno. Provò a nuotare lontano con foga,provò a resistere, alla fine il vortice l’afferrò come i tentacoli di una piovra e la tirò giù. Prima di arrendersi alla morte, si diede con tutto quello che le rimaneva di vivo dentro,un’ ultima spinta verso il cielo;le gambe e le braccia cercarono preghiere,miracoli,vide una donna che le tendeva una mano,poi più nulla.Avvertì una carezza umida sulla bocca,poi aria, aria calda che la penetrava, aprì gli occhi e lo vide, su di lei,si tirò in piedi d’istinto,tossì, vomitò, pianse e quando lui tentò di avvicinarsi scalciò,graffiò,urlò come un’invasata.
Antonino che ciondolava sul sagrato della chiesa quella domenica delle palme,si chiedeva come aveva potuto dimenticare il suo ramo d’ulivo nel giardino, era troppo tardi per tornare ad
Alberi e si vergognava di entrare in chiesa senza il simbolo della festa. Alzò gli occhi verso il cielo sconsolatamente e fu allora che lo vide, un filo di fumo nero che saliva su dalla torre degli
Acciapaccia, fu un attimo e capì, entrò in chiesa deglutì, si fece il segno della croce e gridò:“i saraceni! i saraceni! Sulla torre, c’è fumo nero dalla piana!”Come quando l’onda di risacca abbattutasi con forza sull’acciottolato rumoreggiando si ritrae portandosi dietro sabbia e pietre in mezzo al mare, quel grido di paura investì tutta la gente salì fin sull’altare e poi si ritirò portandosi fuori sul sagrato
uomini e donne terrorizzati.
Antonino a sua volta si ritrovò in mezzo alla calca, guardò ancora in direzione della torre quasi sperando di essersi sbagliato e poi corse giù verso la spiaggia, a rotta di collo, con il pensiero al padre e al fratello che nel
munazero a calafatare non avrebbero potuto sentire le campane.Fu allora, quando tenendosi il fianco cercava di respirare e dimenticare lo sforzo doloroso che la vide gettata sulla battigia di fronte al cantiere. Se non fosse stato per quelle gambe brune e tornite cullate dalle onde l’avrebbe presa per una sirena,tanto era bella. Le si avvicinò, con timore le toccò un braccio, poi con più convinzione la scosse, con forza la voltò, “no, non morire” bisbigliò. Poi , come aveva visto fare a vecchi pescatori,si chinò su quella rosa e le respirò dentro. Quando cominciò a scalciare e a graffiare la soddisfazione di vederla viva lasciò il posto al timore di averle fatto del male.Fu allora, quando vomitando acqua salata alzò lo sguardo che li vide, occhi verdi ,abbellivano la faccia malinconica di un ragazzo. Se non fosse stato per quel ciondolo a forma di croce sul petto nudo avrebbe creduto fosse
un malaica mandato dal Profeta a rapirla. Invece le parlava, le diceva cose con tono rassicurante in una lingua che non comprendeva.
Antonino la guardava e le diceva di star calma,vide il padre e il fratello venirgli incontro. Guardarono lui e la ragazza. Capirono, bastarono poche parole, poi
Marcello disse al figlio di prendere la ragazza e correre dal prete: subito.
Antonino, ancora intontito, si rese conto del pericolo quando il padre indicò ossessivamente il fumo nero sul palazzo degli
Acciapaccia, gli vennero in mente insulti, sputi,coltelli insanguinati,pensò che i soldati avrebbero fatto della ragazza saracena il fodero delle loro spade e si convinse che solo in chiesa non l’avrebbero toccata. Afferrò la ragazza e la costrinse a seguirlo.Si sentì afferrare e si lasciò guidare.Attraversarono vicoli stretti e oscuri,superarono staccionate, calpestarono terreni, fuggirono inseguiti dall’odore del mare. A metà strada si fermarono per prendere fiato e fu allora che la ragazza si ricordò del sacchetto, si tastò il petto, lo afferrò,l’aprì, lo capovolse e si fece scivolare nella mano i confetti;li offrì al ragazzo e quando lo vide titubante, ne prese uno e glielo spinse delicatamente in bocca.
Antonino sentì il salato di quella pietruzza dura “avvelenargli” la bocca e quando il disgusto lo stava convincendo a sputarla, il deliquio dello zucchero che cominciava a vincere il sale del mare lo conquistò.Guardò la ragazza e disse :
Antonino.Guardò il ragazzo e disse :
Aisha.Ripresero a correre e dopo un’ultima estenuante salita si ritrovarono davanti al tempio di Santa Maria del Lauro a Meta.
Antonino guardò di nuovo in direzione della piana, vide che il pennacchio di fumo era sparito. Pensò che il mare mosso aveva spaventato i Saraceni. Entrò con
Aisha nella chiesa ormai vuota, il freddo del pavimento di marmo sotto i loro piedi nudi li fece rabbrividire. Vide
don Vincenzo scendere i gradini dell’altare e gli andò incontro timoroso.Li vide dopo aver reso grazie a Dio, due uccellini sbattuti giù dall’albero da una folata improvvisa, il vestito della ragazza gli rivelò ancor prima che si presentassero chi aveva di fronte, ma fu il suo sguardo incantato in direzione della statua della Vergine a colpirlo.La vide entrando in chiesa, di nuovo quella donna,era apparsa ancora una volta all’improvviso. Era la
Vergine dei Rumi,la donna che aveva visto nell’abisso, si inginocchiò, non sapeva che fare, prese quei confetti che il vecchio padre,
Al Razi, le aveva regalato prima di partire, come farmaco per combattere ogni malattia, come balsamo per lenire ogni dolore e li offrì alla
Signora.La vide inginocchiarsi,offrire tutto ciò che le restava alla Vergine, capì che non c’era differenza,ma un solo Dio e s’inginocchiò pregando insieme a lei.La vide inginocchiarsi,offrire di nuovo quelle mandorle zuccherate,li vide inginocchiarsi e pregare, capì che non c’era differenza ,che per la prima volta in vita sua aveva appreso cosa doveva essere l’amore: un respiro caldo condiviso da due giovani una rigida mattinata d’aprile.Da allora si dice che la domenica delle palme in Penisola Sorrentina si donano confetti, dolci mandorle zuccherate, rimedio ad ogni malattia inventati dal medico arabo Al Razi, portati per la prima volta in Italia da una schiava saracena sopravvissuta ad un fortunale.
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