Invece il Leone l’ha vinto (purtroppo) Sacro Gra. Il greco Miss Violence è molto meglio (e pure Tom à la ferme di Xavier Dolan e Stray Dogs di Tsai Ming Liang avrebbero meritato al posto del doc di Gianfranco Rosi). Miss Violence ha vinto però al Festival di Venezia 2013 due premi. Il primo è la Coppa Volpi a Themis Panou come miglior interprete maschile, il secondo il Leone d’argento per la regia a Alexandros Avranas. Ripubblico la recensione scritta dopo la proiezione stampa a Venezia.
A mio parere, da palmarès. Ritratto di un inferno familiare che ha molto del nuovo cinema greco malsano e perturbante (quello di Yorgos Lanthimos) e qualcosa della tragedia che mica per niente si dice greca. Incomincia con il suicidio di una ragazzina di undici anni, continua con cose anche peggiori. Una messinscena livida, glaciale, dal tono impersonale. Un film che poco mostra e molto allude, lasciandoci intuire il Male al lavoro. Voto 8 e mezzo
- Themis Panou, Coppa Volpi come miglior interprete maschile a Venezia 70
Alexandros Avranas a Venezia con il Leone d’argento per la migliore regia
Il passaparola lo dava tra i film da tenere d’occhio, e il greco Miss Violence non ha deluso, anzi è emerso (almeno fino a oggi) come il film migliore dell’intero concorso insieme a Tom à la ferme di Xavier Dolan. Le aspettative non erano basate sul niente, perché è da qualche anno che il cinema greco, con autori come Yorgos Lanthimos e Athina Rachel Tsangari, ci dà cose fuori da ogni altro modello di cinema, cose perturbanti, perfino malsane, comunque in grado di lasciare segni profondi. Miss Violence è un concentrato di patologie familiari, il ritratto di un interno-inferno domestico allarmante e livido, senza speranze e vie di fughe se non la violenza e il sangue. A riprova di quanto possa essere vero quel Famiglie vi odio! gridato a suo tempo da André Gide. Qui non siamo però nei territori dell’ideologia, del j’accuse, del cinema-con-messaggio, qui siamo alla messinscena, con una freddezza positivistica da studio di psicopatologia sessuale di fine Ottocento, di persone, relazioni, fatti, fattacci priva di ogni intento dimostrativo. In un appartamento greco piccoloborghese (ad Atene?) si celebra l’undicesimo compleanno di Angeliki, intorno a lei la madre, il fratello e la sorella più piccoli, la giovane zia appena quattordicenne, e i due nonni. Foto (con la Polaroid), torta, candeline. Angeliki si mangia un boccone di dolce, va sul balcone, scavalca il parapetto e si butta di sotto. Morta. Come ci si può ammazzare a undici anni? e così poi? e perché? Il regista procede per piccoli blocchi narrativi, per inquadrature spesso fisse, con la famiglia ripresa come un tableau vivant: a tavola, allineata sul divano, davanti al televisore. Non sembrano emergere turbamenti squassanti nei parenti di Angeliki, come fossero tutti caduti in una sorta di catatonia, di refrigerazione emotiva, di anoressia della psiche. Nemmeno la regia (e la macchina da presa) se è per questo mostra fremiti e partecipazione, mantenendo la temperatura della narrazione sul glaciale costante. Una fotografia dai toni lividi aggiunge malessere a malessere, e noi spettatori non capiamo cosa stia accadendo, ma percepiamo l’ombra, l’oscurità, il non detto, il male nascosto da qualche parte e al lavoro. Alexandros Avranas, trent’anni e qualcosa, tiene sotto controllo il film senza il minimo cedimento, o sbandamento. Con un occhio a modelli che vanno da Hitchcock a Fritz Lang a Heineke (e a Lanthimos), monta un cinema della minaccia che ha pochi riscontri negli ultimi tempi, mette insieme pezzo su pezzo una implacabile macchina produttrice di ansia, di mistero, di domande che cercano ma non trovano una risposta. Lascia cadere indizi minimi, e a poco a poco, come in una polaroid appena scattata, l’immagine sdi delinea, prende corpo e colore. Qualcosa cominciamo a sospettare. Intuiamo che quell’apparentemente irreprensibile anche se severo capofamiglia, il nonno-patriarca, sia in realtà una creatura demoniaca, un mostro. Il Male. Lo è, difatti. Gli orribili segreti di famiglia emergeranno tutti, portando a un finale che non può non farci ricordare come sia stata proprio la Grecia il luogo di nascita della tragedia. Qualcosa da Edipo, molto degli Atridi. Incesto, stupro, manipolazioni psicologiche, torture fisiche. In un’escalation di orrori che non può che finire in un bagno di sangue. A colpire è l’impeccabile costruzione del plot, il segno forte di una regia che non perde mai il controllo e, più che esibire, insinua, allude. E che solo nel finale esplicita. Con uno stile da rituale di morte che rimanda non solo al conterraneo Lanthimos (Alpis), ma anche al Pablo Larrain di Post Mortem e Tony Manero, e Larrain, ricordiamolo, è tra i giurati di questo Venezia 70. Momenti che definire disturbanti è poco (il ballo della bambina di fronte al’amico del nonno). Grandissima riuscita. Da palmarès. Poi magari gli preferiranno il più smaccatamente arty La moglie del poliziotto di Philip Gröning, anche quello su un inferno domestico. Ma quello che Gröning impiega tre ore a dirci, Avranas riesce a comunicarcelo con poche inquadrature, con il gioco di sguardi tra i protagonisti.