(al cinema) Recensione: I BAMBINI SANNO di Walter Veltroni

Creato il 06 maggio 2015 da Luigilocatelli

I bambini sanno, un documentario di Walter Veltroni.
39 bambini interpellati su piccoli e grandi temi della vita. Qualche volte saltan fuori cose acute e divertenti, ma nella maggior parte dei casi gli intervistati non ce la fanno proprio a sorprenderci. Aleggia sull’operazione una retorica appiccicosa, una visione dolcificata dell’infanzia. Voto 5
Ecco, la difficoltà vera nello scrivere di questo film è prescindere dal fatto che alla regia ci sia Walter Veltroni, con tutto l’ingombro che il nome si porta dietro. Spogliarsi allora di ogni pregiudizio favorevole o sfavorevole. Dimenticare Veltroni. Scrivere, commentare come se non sapessimo niente di lui, neanche le proverbiale due o tre cose godardiane. Come se non conoscessimo il suo passato politico e la sua cinefilia. Dopo un tale (sano o insano?) esercizio mentale, andiamo a scrutare questo abbastanza strano e inconsueto per i tempi attuali oggetto cinematografico chiamato I bambini sanno, da una citazione da Saint-Exupéry posta in epigrafe al film. Che è già un colpo basso nei confronti dello spettatore, tirando in ballo un autore venerato e indiscutibile e ponendosi sotto la sua protezione onde neutralizzare possibili critiche. L’operazione maniavantista continua subito dopo, con un montaggio anche carino, e però irrimediabilmente furbetto, di sequenze di bambini in corsa e in fuga presi da film famosi o famosissimi, a partire – è ovvio – dal finale (la cui citazione sarebbe da proibire per legge per l’uso e l’abuso che se n’è fatto in ogni dove) di I 4oo colpi di Truffaut, con il piccolo Antoine Doinel/Léaud sgambettante verso il mare. Ah, l’infanzia! Così pura, incorrotta e così incompresa, quando non addirittura maltrattata e abusata, dal mondo degli adulti. Questa la costruzione ideologica che trapela dal primo quarto d’ora di I bambini sanno, il resto – le interviste a 39 ragazzini tra i nove e i tredici anni, dal Nord al Sud italiano fino a Lampedusa – ne è, non può che esserne, la dimostrazione ferrea per immagini, parole e tranches de vie. Il limite del film sta qui, nel suo carico inevitabilmente retorico e, ebbene sì, buonista, in una idealizzazione stucchevole e dolcificata dell’infanzia, in una ideologia bambinistica che espunge ogni ombra, ogni possibile sospetto del male che, sottoforma di ferocia e crudeltà, possa albergare anche nei pargoli apparentemente più inoffensivi e innocenti. Mai sentito parlare del Signore delle mosche, per dire? Mai visto infanti torturare lucertole e gatti? O maltrattare propri coetanei? Invece nelle camerette che vediamo, una dopo l’altra – tutti gli intervistati son ripresi frontalmente, sempre alla stessa distanza di macchina da presa, tra i loro lettucci e i loro peluche e i disegni e i giochi – si condensano solo buoni sentimenti, e solo rarissimamente il contrario. Il film è diviso per capitoli, intitolati ai “grandi temi della vita” (così il pressbook) su cui i 39 son chiamati a pronunciarsi. “Amore, sessualità, vita, morte” (sempre dal pressbook), a proposito dei quali delle volte i bambini dicono cose acute e pure divertenti, ma il più delle volte ovvietà che sembrano ricalcare le idées reçues respirate dal mondo degli adulti, e rivelano il bisogno inconscio di dire quello che i grandi si aspettano da loro. Gli interpellati dovrebbero sorprenderci, ma capita – e stiamo larghi – sì e no nel venti per cento dei casi, perché nella gran maggioranza a trionfare sono il prevedibile e il convenzionale. Veltroni cerca di stanarli anche su un tema sensibile come l’omosessualità, ma anche qui le risposte sono prudentissime e anodine (i meno favorevoli sono i figli di immigrati, il che è un dato interessante). Ogni tanto il film ci strappa qualche sorriso, ogni tanto dalla voce dei bambini emerge davvero un punto di vista altro, ma il più delle volte siamo sommersi dalla melassa, et c’est tout.


Potrebbero interessarti anche :

Possono interessarti anche questi articoli :