Al di là del cancro

Creato il 06 dicembre 2010 da Fabry2010

Di Antonio Imbò(*)

Nell’Avvertenza l’autore scrive che  il suo non vuol essere altro che il tentativo, a mio avviso riuscito, di dare significato a ciò che, d’un tratto, gli appare incomprensibile. Dare, cioè, un senso a quello che all’improvviso gli è accaduto, la sua malattia… E per farlo Benemeglio si consegna alla parola, alla scrittura che in questo modo acquista una funzione, direi, terapeutica.  A pagina 60 leggiamo: “Vivere eternamente grazie alla parola, vivere nella parola, grazie alla magia della parola”. Questa dichiarazione ci rimanda, come sappiamo, alla natura salvifica della parola, e più precisamente ci ricorda il possibile riscatto, la via d’uscita che offre la narrazione. Narrare vuol dire procrastinare, differire, rinviare l’appuntamento col proprio destino. Fintantoché si racconta una storia la morte può attendere.

E  veniamo al centro della questione. Di come cioè il testimone, “l’eletto” ,  direbbe Benemeglio facendo ricorso all’autoironia, che lo contraddistingue, guarda in faccia la realtà e ce la racconta  Veniamo cioè alla questione di come ci viene narrato, rappresentato l’uomo dinnanzi al suo destino. Perché è evidente che le risposte cambiano da uno all’altro. Benemeglio  ci rappresenta la sua personale vicenda con ottimismo, con una lucidità certo straordinaria senza mai far ricorso a una surrettizia retorica del dolore.  E’ la cosa che più colpisce leggendo queste pagine, fin dall’inizio. La piena consapevolezza di chi scrive, la sua coerenza, la sua lucidità. Non c’è traccia di oscurità, il pensiero è libero, non vi è tentativo di nascondimento, tutto è chiaro al nostro autore che si presenta davanti al lettore per com’è, rinunciando a ogni finzione, senz’alcuna maschera, senz’alcuno schermo.

Per non soccombere, però, in questo drammatico faccia a faccia con la malattia fa ricorso, nel raccontare e nel raccontarsi, a una figura retorica che avevo registrato in un precedente suo libro, vale a dire all’ironia e ancor più all’autoironia. Questa dissimulazione, in questo caso necessaria, gli permette direi di sopportare, controllare meglio il peso della materia narrata. In questo senso siamo di fronte a un testo trasgressivo, che ci fa sorridere in un momento in cui non dovremmo farlo. Alcune scene o battute arrivano ad essere perfino esilaranti, innescando un cortocircuito per cui il riso non riesce ad esplicarsi, ma viene frenato….  Si raggiunge il culmine in fondo alle pagine 47 e 48 dove ci viene presentato un medico che parla alterando le parole per un difetto di pronuncia, parole intercalate con una v e una f, creando in questo modo un disordine linguistico per cui l’ascoltatore, o il lettore in questo caso, fatica a trovare il significato. Metafora chiara di quell’affanno che l’autore compie per trovare un senso a quello che gli viene detto o, più in generale, a quello che gli è accaduto, che gli sta accadendo. E’ un momento umoristico fortemente significativo di quel sentimento del contrario di cui dicevo, un esempio dove il contesto drammatico si ribalta in commedia. Quando la realtà diventa grave allora, in quel momento, la leggerezza diviene una virtù.

La narrazione si chiude con l’immagine di una partita a scacchi. Il libro è stato detto è un prosimetro, dove i versi si alternano con la prosa. Leggo le ultime righe: “Gioca a scacchi, mi dico,/è l’ultima tua possibilità.//Cavalca il bianco a elle/vai allo sbaraglio con la regina./Ormai non c’è più alcuna via di fuga/devi affrontare la battaglia”.

Questo epilogo richiama, anche se mai citato nel testo, Il settimo sigillo di Bergman. Che certamente Benemeglio conosce. In quel film un cavaliere di ritorno dalle Crociate in terra santa, decide di sfidare la morte a scacchi. La morte non vince lealmente la partita. La vincerà quando il cavaliere con il movimento del braccio farà cadere i pezzi della scacchiera. Raccogliendoli e rimettendoli a posto la morte modifica la disposizione dei pezzi per poter vincere. Voglio dire a Benemeglio, che ha intrapreso questa sfida, di continuare come ha fatto finora, di non abbandonare la partita, di non rovesciare la scacchiera*.

  • Estratto dalla relazione letta nella Sala della Tipografia del “Commercio” di Lecce. Sabato, 16 ottobre  2010.

Altri brevi spunti critici:

C’è , in questo libro, un’autenticità che non lascia scampo che non ti permette di guardare altrove e fa rabbrividire. Eppure c’è un immaginario che si rincorre nel testo il pensare, il sentire, l’immaginare, hanno lo stesso ritmo che consiste in un movimento dentro-fuori, di concentrazione e dilatazione che diviene il respiro stesso. “Non c’è nessuna siepe leopardiana l’orizzonte non è infinito. E’ sbarrato”. Questi versi mi hanno fatta rabbrividire e poi è stato aggiunto: “tutto sembra condurti dentro il cuore di un’immensa tenebra” e si riapre l’immaginario, perché anche la tenebra è un’immagine dalla quale si può attingere il punto di lontananza assoluta, in cui ritrovarsi ancora, anche con le sue parole:  ”il linguaggio che salva”

Pamela Serafino

…Eroe per caso chi vince la sua partita contro il cancro? Può darsi, ma non c’è nichilismo nei versi di Benemeglio, che regalano l’insegnamento più grande non alla fine del libro, ma all’inizio, in prefazione: Ci sono conquiste dell’anima impossibili senza la malattia perché il dolore più grande, come ci ricorda l’autore, probabilmente non è fisico, e non è malattia pura, è la perdita di un figlio. Chi ha avuto il buon senso di leggere fino in fondo questo piccolo, ma importante contributo, avrà riflettuto sui grandi temi della vita che la malattia induce a guardare sotto una prospettiva nuova, al di là della siepe, di memoria leopardiana, che Benemeglio ha descritto da poeta: egli è un artista della scrittura, ovvero uno scriba, com’egli si definisce nel testo; è riuscito a mettere insieme due forme di comunicazione diverse, ma immediate: la prosa e la poesia; è riuscito a spiegare pienamente cosa toglie e cosa dà la malattia. E se il dolore è dato per scontato, il guadagno non lo è affatto:

la sofferenza ha un valore/ il dolore ha un costo

Agnese Bascià

Alla fine del libro  tutto diventa poesia , o versi,  perché l’autore non ha  più domande da porsi sul suo divenire, essendo il senso della vita compreso appieno, e non resta nemmeno inanimato come una foglia al vento ma sceglie , invece, di vivere il tempo (quello che fu e quello che ora è) osservandolo,ascoltando in silenzio la sua voce

«Caro Biagino [...] la pagina bianca è attesa, è silenzio, è l’anima dello scriba che possiede tutta la scienza vera, segreta, quella del silenzio[…]».

Il movimento regolatore dell’universo che equilibra l’uomo e lo pone tra coscienza e incoscienza elevandolo col silenzio all’estasi è il verso, la poesia nata in quello stesso silenzio che intesse i discorsi con l’anima dove le percezioni non riescono a esprimersi in parole.

Vincenzo D’Aurelio

…è molto bello il libro che mi hai regalato Augusto:

porta le stimmate della passione e del rigore, e rivela la tua anima ardente e profonda nello stesso tempo, ignara del politicamente corretto che ammorba il nostro tempo.

Fabrizio Centofanti



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