I ricchi vadano al Diavolo, cioè all’inferno. Si tratta di un pensiero pre-moderno, per non dire superstizioso, pronunciato dal leader di un partito religioso che confonde la politica con la scomunica.
All’inizio era la “verbosità” dell’annunciazione comunista, poi fu la “praticità” delle decisione opportunista. Ma i benestanti non vanno più all’inferno da qualche secolo, ovvero, da quando la Chiesa ricorse allo stratagemma delle “pene purgatorie”, in una data fase del medioevo continentale, per dare una chance di salvezza agli usurai e ai banchieri cristiani.
Prima di ciò, per un millennio all’incirca, l’aldilà si divise in due compartimenti stagni, il cielo per i buoni e gli inferi per i cattivi, tertium non datur. Il soldo era sterco del Demonio ma, poiché gli strozzini finanziavano le imprese papali e sostenevano economicamente la santa ecclesia, occorreva un po’ di riconoscenza nei loro riguardi. Un periodo di espiazione, con sofferenze transitorie, sarebbe stato sufficiente a riabilitarli agli occhi di Dio, spalancando anche per loro, almeno in un secondo momento, le porte del Paradiso.
Se avesse letto Le Goff, Nichi Vendola, poeta, letterato e governatore regionale, lo avrebbe saputo, oppure avrebbe potuto farselo raccontare dai preti, suoi buoni amici, essendo stato lui a spalancare, in Puglia, i prosaici portoni della sanità privata a Don Luigi Verzè, cui affidò una struttura ospedaliera sovvenzionata con i talleri dei contribuenti pugliesi.
Il presbitero, affezionato al Cav, lo ringraziò pubblicamente definendolo un santo, al pari di Berlusconi. Chissà se Vendola gradì il ditirambo, ma tant’è, il giudizio divino e dei suoi vicari è indiscutibile.
In realtà, l’uscita improvvida sui ricconi di Vendola risponde a tutt’altre esigenze identitarie e rientra in quel “gesuitismo laico” del capo pragmatico che pontifica in accordo con l’alta dottrina e gestisce secondo la bassa logica della bottega.
Se non nascondesse sotto un profluvio di formule magico-demagogiche, sfavillanti ma pressoché incomprensibili, le sue azioni in controtendenza con l’ideologia pauperista di cui si fa latore, il trucco sarebbe stato smascherato all’istante e i fedeli-militanti gli avrebbero già voltato le spalle.
Perché, in fondo, Nichi si porta a spasso la coerenza come un orecchino, è soltanto apparenza che luccica e non illumina. Estetica più che etica. Il terlizzese non ce l’ha davvero con i potenti, ed i prepotenti lo sanno, tanto che lo invitano alle loro conferenze, vedi i Rockefeller con la loro fondazione e i Ford con la loro associazione. In un viaggio promozionale americano, di qualche anno fa, Vendola dichiarò apertamente ai giornalisti: “A New York ho incontrato i rappresentanti della Fondazione Rockefeller e della Fondazione Ford con i quali ho approfondito la discussione su temi come la deforestazione, la desertificazione, la difesa dell’acqua come bene comune…sempre a New York ho incontrato gli attori fondamentali del sistema Italia, presso la sede del Consolato, con cui abbiamo discusso di progetti specifici, come quello legato agli itinerari ebraici in Puglia che possiamo rivolgere alla comunità ebraica di New York.”
Va bene, potrebbe non esserci nulla di male in siffatte pubbliche relazioni, tuttavia, ne risentono l’empatia con la classe lavoratrice e la simpatia col sindacalismo logorroico, caratteristiche sulle quali Vendola ha costruito buona parte della sua offerta politica. In seconda battuta, non è mai educato sputare nel piatto dove si mangia, non è bello accomodarsi tra i danarosi e disconoscerli alla prima occasione, crocifiggendoli impunemente a chiacchiere.
Se tra il suo dire ed il suo fare c’è di mezzo l’Oceano Atlantico dobbiamo dedurne che il suo afflato operaio è mera “nostalgie de la boue” (o romanticizzazione degli animi primitivi, per dirla alla Tom Wolfe), con la quale si vuol mostrare prossimità con chi vive nel fango, badando bene di mantenere gli abiti inamidati e lindi.
Così, accade l’unico miracolo di tutta questa triste storia priva di saggezza biblica: la discrepanza s’incarna in un falso profeta che ha nel pourparler il suo inossidabile programma.
Ciò lo capì subitaneamente, a sua spese, l’ex direttore dell’Acquedotto Pugliese, Riccardo Petrella, il quale prendendo sul serio i sermoni anticapitalistici del Presidente, si mise in testa di buttare fuori dall’APQ la finanza internazionale. In tutta risposta, Vendola buttò fuori lui accompagnandolo sull’uscio con queste frasi: “il superamento della Spa e l’abbattimento delle tariffe … Sono il frutto di un radicalismo astratto, privo di coordinate politiche, di valutazioni sommarie e semplificate su un ente che, al contrario, è straordinariamente complesso…”.
In sostanza, l’acqua è un bene pubblico esclusivamente in campagna elettorale mentre, poi, bisogna fare i conti con i meccanismi del mercato ed i soggetti privati che spostano voti e capitali.
Adesso, sappiamo, per averlo studiato sui testi di La Grassa, che la forma giuridica della proprietà non costituisce uno spartiacque, ci sono iniziative private che funzionano meglio di quelle statali e viceversa. Semmai, ciò che vale sono l’efficienza, l’efficacia e le tariffazioni dei servizi fondamentali da offrire alla cittadinanza, oltreché il sostegno ai settori considerati strategici per l’autonomia della nazione, da difendere contro gli attacchi esterni. Quel che non può essere tollerato, invece, sono i controsensi e le rigidità di chi costruisce il proprio profilo elettorale su precise battaglie di civiltà (come vengono pomposamente chiamate dai cialtroni) ma alla prova dei fatti spedisce in discarica le declamate convinzioni. Mettiamo, dunque, da parte gli anatemi e confrontiamoci seriamente sui problemi, locali e nazionali. Per essere presi sul serio bisogna dimostrare di essere seri. Forse è chiedere troppo ai parolai dei nostri tempi?