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Al Shabaab: quale futuro?

Creato il 24 aprile 2015 da Geopoliticarivista @GeopoliticaR
Al Shabaab: quale futuro?

La Somalia è teatro di un’estrema instabilità nella quale dal 2006 opera l’organizzazione terrorista Al Shabaab; un caso estremamente interessante da analizzare poiché le sue dinamiche evolutive segnano il passaggio dagli iniziali tratti di insurgency, determinati da un progetto “politico” interno e circoscritto alla sola Somalia, per poi assumere i caratteri di un’organizzazione affiliata alla galassia qaedista sempre più votata ad un proclamato progetto di jihad globale. Al Shabaab, prima degli altri, ha condotto l’esperienza di una parallela sovranità territoriale disciplinando a suo modo anche determinati aspetti sociali ed economici di quello che è diventato un territorio “diversamente” governato. Il recente attentato al Central Hotel di Mogadiscio, condotto con le modalità dell’attacco suicida e le recenti minacce al cosiddetto “mondo Occidentale”, mosse in perfetto stile “Al Qaeda”, impongono una riflessione.

 
La Somalia, dal punto di vista politico, è stata fortemente caratterizzata da esperienze contrastanti e contrastate che vanno da tentativi di stabilire i concetti sociali del marxismo al potere forte e contrapposto dei warlords o signori della guerra. Le forti divisioni claniche hanno, tuttavia, impedito che un potere egemone si potesse insediare e consolidare. In questo stato di precarietà, l’abbattimento del regime di Siad Barre avvenuto nel 1991 e culminato in una guerra civile, esasperò l’aspetto sociale privo di qualsivoglia riferimento statuale. L’Islam, per mezzo di organizzazioni islamiche d’ispirazione salafita contraddistinte da un carattere politico e socio-assistenziale, si è imposto come forte punto di riferimento sociale e politico. In questo senso, le cosiddette Corti Islamiche si posero come unico punto di riferimento fermo, strutturato e capace di dare risposte ad un popolo che si trovava nel caos. Questo è il quadro storico all’interno del quale nasce e si sviluppa l’embrione di Al Shabaab. Inizialmente, in seno al gruppo primordiale convergono i reduci somali; questi hanno combattuto in Afghanistan sotto l’ideologia di Abdallah Azzam e l’influenza carismatica di Bin Laden, e tramite loro in Somalia viene “importata” una visione dai tratti radicali propri dei movimenti jihadisti1. Ancora una volta l’esperienza mutuata su fronti di guerra contribuisce alla formazione di nuove realtà jihadiste.
Tuttavia questi reduci operano ancora nelle fila delle Corti Islamiche, diventate poi Corti Islamiche Unite a seguito della loro fusione per contrapporsi ai warlords che con esse si contendevano il potere in una Mogadiscio in preda alla più totale confusione.
Nella seconda metà del 2006 nasce ufficialmente Arakat Al-Shabaab, meglio conosciuta come Al Shabaab, (الشباب ash-Shabāb, “I Giovani”). Sono l’ala estrema delle Corti Islamiche Unite che ben presto rivendicherà la propria indipendenza formulando un proprio progetto politico che inizialmente lo inquadra, sotto la guida di Hadan Ashi Ayro, come gruppo insorgente votato ad un progetto quasi esclusivamente interno a carattere nazionalista. La cacciata delle truppe etiopi prima e quelle di stabilizzazione presenti su mandato della Comunità Internazionale poi, è lo scopo principe.
Inizialmente, questo spirito “nazionalistico” ha portato Al Shabaab ad avere un innegabile e spontaneo sostegno popolare che ha proiettato il gruppo terrorista somalo verso una diretta esperienza di governo parallelo del territorio, soprattutto a causa di una totale assenza di quello ufficiale.

La morte di Ayro, deceduto nel 2008 sotto un bombardamento, sancisce un cambio al vertice.
Il biennio 2009 -2010, caratterizzato dalla leadership di Ahmad Abdi Godane, può tranquillamente essere visto come il “periodo d’oro” di Al Shabaab: a un controllo del territorio, ormai acquisito, corrisponde un certo consenso popolare che si concretizza in una vera e propria governance da parte del gruppo, che rivendica il controllo di larga parte della Somalia. In questo periodo Godane intreccia stretti rapporti con Al Qaeda, dalla quale mutua alcuni aspetti organizzativi. Contestualmente, un’evoluzione nel campo della comunicazione strategica, connessa a una propaganda in rete e gestita da un apposito dipartimento, permette un’internazionalizzazione dell’organizzazione che inizia a reclutare anche cittadini stranieri – i cosiddetti foreign fighters – facendo leva sulla propaganda jihadista contro l’occidente.
È un valore aggiunto per l’organizzazione terrorista, che inizia a manifestarsi come un contenitore ambivalente: se da una parte, infatti, si alimenta la fazione degli idealisti provenienti da tutto il mondo e legati alla missione jihadista, dall’altra la maggior parte della truppa continua ad essere costituita da giovani somali disoccupati, non sempre ideologicamente motivati, che servono nelle fila di Al Shabaab dietro il corrispettivo di un salario stabile. Quest’ultimo carattere costituirà un motivo fondamentale per il declino dell’organizzazione negli anni successivi.
In ogni caso, in questo periodo Al Shabaab è forte e influente anche nella capitale, Mogadiscio, riuscendo a esercitare un capillare controllo su una parte della città e a influenzarne altre: le truppe di AMISOM2 non sembrano in grado di contrastare le attività del gruppo terrorista, talmente forte da arrivare a imporre una tassa alle organizzazioni umanitarie presenti nella città.
L’estate del 2009 coincide con un inasprimento della tecnica di combattimento di Al Shabaab, che ricorre ad attentati suicidi anche per mezzo di strumenti esplosivi improvvisati ed artigianali denominati “IED” (Improvised Explosive Device). Al riguardo, studiosi della materia hanno evidenziato connessioni sia con AQIM che con Boko Haram, concretizzatesi in un comune e specifico addestramento militare3. Questa nuova tendenza strategica si manifesta anche con un impegno operativo all’estero: il 9 luglio 2010 Al Shabaab, con una dichiarazione, incoraggia tutti coloro che credono nella causa ideologica ad attaccare nel mondo le rappresentanze diplomatiche di Uganda e Burundi, nazioni colpevoli di aver dato supporto al Governo Transitorio somalo. Al sinistro messaggio seguono, due giorni dopo, attentati esplosivi a Kampala, in Uganda, che causano la morte di oltre 70 civili: è il primo attentato di Al Shabaab fuori dai confini somali.
Sempre nello stesso periodo si rafforzano i rapporti con l’islamismo radicale in Kenya: il MYC (Muslim Youth Center), organizzazione religiosa che provvede tuttora all’indottrinamento dei giovani secondo i dettami dell’Islam radicale, inizia ad appoggiare la causa degli Shabaab: a seguito di questo, molti giovani studenti del MYC partono alla volta della Somalia e, cosa ancora più preoccupante, iniziano a costituire un link operativo di Al Shabaab in Kenya dove è presente un’importante comunità della diaspora somala. Il Kenya diviene ora un luogo dove reclutare ed allargare la sfera d’influenza.
Il 2010, se da un lato segna il salto di qualità di Al Shabaab, dall’altro inizia a porre alcune criticità; infatti è nella seconda metà di questo anno che Al Shabaab comincia a barcollare dal punto di vista della lotta contro il Governo di transizione somalo. Inoltre, il non essere riusciti a portare una decisa offensiva contro le truppe di AMISOM concorre ad alimentare tensioni interne causando defezioni nelle fila dell’organizzazione.
Il 2011 è l’anno che segna l’inizio di una fase discendente per Al Shabaab, che ripiega da Mogadiscio per poi arretrare in modo significativo nel resto delle aree controllate; successivamente, il 2012 segna la perdita di controllo della città portuale di Kisymao, centro nevralgico dell’attività economica degli Shabaab e luogo di connessione dell’organizzazione jihadista con gli esponenti della pirateria4 che imperversano nel Golfo di Aden.
Sempre in questo periodo cresce, un già storicamente presente, risentimento contro il Kenya che ha aderito alla missione di stabilizzazione inviando proprie truppe e che viene evidenziato come un nuovo fronte stabile dove operare attentati.

Sulla base di questi presupposti prende il via una nuova fase strategico-operativa certamente influenzata dall’ufficializzazione dell’affiliazione di Al Shabaab a un’Al Qaeda anch’essa interessata a un riposizionamento organizzativo. A febbraio 2012 Al Zawahiri presenta Al Shabaab come gruppo affiliato alla galassia qaedista5, rinnovando così quell’antico legame che in principio aveva visto i primi reduci afghani che avevano combattuto con bin Laden, integrarsi nelle fila delle Corti Islamiche all’inizio dei primi anni ’906.
La precarietà di quello che precedentemente era stato, di fatto, un potere consolidato, rende necessario un cambio operativo; lo annuncia lo stesso Godane, leader degli Shabaab, che abbandonando l’idea di un’azione di lotta basata anche sulla simmetricità, fanno ritorno al metodo classico del terrorismo.
L’azione degli Shabaab si gioca ora su di un piano ambivalente: la storica questione della lotta interna contro le truppe definite d’occupazione e il jihad globale, rilevando un’estrema debolezza dell’organizzazione nell’operare in modo efficace su tutti e due i fronti.
In questo senso, un’attenta riflessione evidenzia una proporzione inversa tra attacchi terroristi condotti secondo il concetto del jihad globale e quelli “dedicati” al progetto primario votato alla liberazione della Somalia dalle truppe straniere del contingente AMISOM. Si accentuano i primi nel momento in cui non si è più capaci di fronteggiare in modo “convenzionale” i contingenti internazionali.
Il ritorno al classico metodo di azione “asimmetrico” evidenzia dunque una debolezza strutturale degli Shabaab, un tempo capaci di fronteggiare apertamente sia l’esercito regolare che le truppe di stabilizzazione presenti sotto egida ONU.
In questo senso si deve leggere l’attentato del 21 settembre 2013 al West Gate Mall di Nairobi, in cui un gruppo armato di terroristi appartenenti ad Al Shabaab fa irruzione, aprendo il fuoco in un centro commerciale nel centro della città; nella circostanza trovarono la morte sessantasette persone, mentre altre saranno ferite e tenute in ostaggio per tre giorni.
Altrettanto tragico l’attacco ad un autobus di linea nei pressi di Mandera nel novembre 2014; anche in questo caso i terroristi aprirono il fuoco uccidendo ventotto persone.
Il recente attentato al Central Hotel di Mogadiscio dello scorso 20 febbraio riaccende i riflettori sulle azioni terroriste di Al Shabaab. In questo caso, la morte di dieci persone è stata causata da due attentatori suicidi che si sono scagliati contro il bersaglio a bordo di una vettura carica di esplosivo.

Sembrerebbe qualcosa di ordinario se non fosse che subito dopo, oltre alla puntuale rivendicazione, è stato diffuso un videomessaggio che incoraggia gli jihadisti a colpire centri commerciali negli USA, in Canada e a Londra7.
È il ritorno alla politica del terrore metodico che, non è da escludere, potrebbe coincidere con azioni di protagonismo messe in atto da diverse fazioni interne agli Shabaab le quali potrebbero costituire il tentativo di guadagnarsi un primato internamente al gruppo. Giova ricordare che già anni addietro in seno all’organizzazione terrorista, si crearono delle rotture in merito all’affiliazione ad Al Qaeda.
In questo contesto, lo sconvolgente attacco del 2 aprile 2015 all’università keniana di Garissa8, città non molto distante dalla porosa frontiera somala, ha profondamente scosso l’opinione pubblica mondiale. Nella circostanza, un commando armato di “Shabaab” ha fatto irruzione all’interno del campus giustiziando centoquarantasette studenti di fede cristiana.
Le modalità di assalto ed esecuzione, rilevano un messaggio chiaro: si uccidono infedeli e miscredenti, non mancando di esaltare uno stato del terrore che cresce, sempre più, nelle ore in cui il gruppo armato jihadista concretizza la propria azione. Oltre a ciò, il separare i cristiani dai musulmani simboleggia la dicotomia Dar al Harb9 – Dar al Islam: nella tradizione jihadista, il primo rappresenta il territorio popolato dagli infedeli, una “terra da liberare”, mentre il secondo si identifica con il “fine ultimo” – lo spazio, geografico e ideale, popolato dai seguaci del Profeta.
Esattamente come nel caso dell’assalto al West Gate Mall di Nairobi si gioca sul sentimento di una prolungata angoscia che determinerà, ancor di più, la percezione del terrore destinato a rinnovarsi in luoghi indeterminati ed in un tempo indefinito ma in qualche modo certo.

Questi ultimi episodi evidenziano, certamente, un cambio di tendenza che probabilmente coincide con un’ulteriore perdita di terreno in Somalia. Inoltre, lo stile operativo delle ultime azioni è assolutamente in linea con la tecnica di Al Qaeda, così come anche l’esaltazione del gesto e il richiamo a colpire l’Occidente.
Appare verosimile che il nuovo leader dichiarato di Al Shabaab, Ahmad Umar, succeduto a Godane (ucciso la prima settimana di settembre 2014 da un drone statunitense) abbia la seria intenzione di rimodulare l’azione dell’organizzazione secondo i canoni del jihad globale propri di Al Qaeda: infatti, se prima questi erano stati dichiarati in funzione degli interessi somali, ora vengono proiettati su larga scala, prevedendone un impatto fuori dal continente africano.
Su queste basi, la questione non dovrebbe essere trascurata, principalmente per due motivi.
Il primo è da collegare al tentativo di Al Qaeda, cui Al Shabaab ha giurato fedeltà, di riproporsi nello scenario internazionale anche attraverso gruppi strutturati che operino al di fuori della cellula madre qaedista ma ad essa affiliati. L’espansione dello Stato Islamico e la sua capacità d’integrazione, quantomeno ideale, ha recentemente colto la fedeltà di Boko Haram che ha dichiarato la sua affiliazione; questo crea una potenziale destabilizzazione degli “equilibri del terrore” che hanno caratterizzato l’Africa sub-sahariana. Non è da escludere che a causa di questo Al Qaeda, ormai debole anche in Yemen, possa aver approfittato del cambio di leadership in Al Shabaab per influenzarne la politica e connotarne le azioni e la progettualità a suo favore.
Il secondo motivo risiede nel fatto che Al Shabaab può contare su elementi della diaspora somala presenti in diverse parti del mondo dove ha dichiarato di voler colpire.

Concludendo, possiamo dire che Al Shabaab sta certamente cambiando pelle. In un percorso a ritroso che la riporta da un sistema di governo parallelo diffuso ad un ritorno al terrorismo metodico, si inseriscono dinamiche geopolitiche che stanno, di fatto, ridefinendo la geografia del terrorismo in Africa.
La sensazione è che gli Shabaab siano divisi al proprio interno e che in questa frattura si stia inserendo un Al Qaeda indebolita su altri fronti ma determinata a non cedere la leadership del jihad globale allo Stato Islamico.
Un momento di assoluta debolezza o più semplicemente, un ridimensionamento strutturale?
Difficile per ora rispondere a questa domanda, di certo vi è solo la ormai permanente instabilità di un’area geografica che una volta, contrariamente ad oggi, era un luogo d’incontro tra civiltà, crocevia di scienze e culture.


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