Sono passate due settimane dalla strage nella redazione del Charlie Hebdo e della rivendicazione della libertà di satira e di espressione non è rimasto nulla, se non qualche dagherottipo precocemente ingiallito. Al contrario si sono rafforzate le pulsioni al controllo dell’informazione ufficialmente in funzione anti terroristica, sostanzialmente per limitare ulteriormente le libertà dei cittadini. In Francia è stato arrestato il comico Dieudonné per aver fatto dell’ironia sulla sfilata dei potenti a Parigi con l’accusa di apologia di terrorismo, mentre in Italia l’atmosfera dominante ha fatto sì che la Cassazione abbia messo il bavaglio ai giornali vietando la pubblicazione di virgolettati non solo delle intercettazioni, ma anche di brani di inchieste non più sottoposte a segreto d’ufficio. Questo mentre il Parlamento si sente più legittimato a varare una nuova norma sulla diffamazione e sul diritto di oblio che di fatto ucciderà la libera informazione in rete. E cose più o meno di questo tenore valgono per tutto il continente.
Non è certo una novità il fatto che le imprese terroristiche, conseguenza diretta delle guerre occidentali condotte anche stimolando e sovvenzionando a turno ogni follia integralista, siano servite ad accrescere il controllo dell’informazione, ma il caso di Parigi, con il suo riferimento diretto rende queste dinamiche chiare e scoperte: per difendere la libertà di espressione dai nemici esterni occorre reprimere la libertà d’espressione. Quanto questo sia utile alle oligarchie europeo – atlantiche e alle sue élite screditate è talmente palese che la tentazione di vederci lo zampino del potere è praticamente irresistibile.
Del resto è la stessa sproporzione tra il messaggio di paura che viene lanciato e la realtà che denuncia l’uso strumentale degli episodi subito archiviati nell’infame cartella guerra di civiltà, che porta al sospetto. Dal 2011 ad oggi, Parigi compresa, il terrorismo riferibile all’integralismo mussulmano di qualunque tipo ha fatto 26 vittime in 8 attentati di cui 5 in Francia e uno a testa fra Germania, Belgio e Gran Bretagna. Nello stesso periodo di tempo ci sono stati circa 18 mila morti sul lavoro (escludendo i decessi nel tragitto casa lavoro o quelli indiretti altrimenti si arriverebbe a 33 mila) e le maggiori agenzie della salute calcolano in 400 mila all’anno i decessi prematuri a causa delle condizioni ambientali. Ma anche senza andare nei grandi numeri basti pensare ai 90 morti all’anno riferibili solo all’inquinamento causato dall’Ilva.
Qualcuno dirà che si tratta di cose differenti e incomparabili fra loro. Sta di fatto che ognuno di noi ha 1000 probabilità in più di morire sul lavoro che di rimanere vittima del terrorismo e un comportamento razionale dovrebbe essere quello di richiedere più tutele sul lavoro e sull’ambiente piuttosto che misure sempre più liberticide in funzione di un nemico esterno per giunta spesso sovvenzionato da governi amici. Ma poi è vero che il terrorismo minaccia i nostri valori più di quanto non accada per l’avvelenamento doloso o colposo dell’ambiente e per lo sfruttamento del lavoro? Nella risposta che ognuno di noi dà a questa domanda c’è tutta la nostra essenza politica: la nostra civiltà (e oltretutto la nostra Costituzione) si fonda sul lavoro, sul suo valore e sulla sua dignità: svalutarlo, umiliarlo significa sputare su ciò che si vuole pelosamente difendere da un ambiguo nemico esterno. Se i terroristi sono il triste raccolto delle guerre seminate per il potere geopolitico, la mortificazione del lavoro non è altro che il risultato della guerra che il profitto di pochi sta facendo ai diritti di molti. E quest’ultima guerra ha bisogno di imporre una verità ufficiale che non può essere contestata, perché solo così si può evitare che la ragione alla fine prevalga sui meccanismi mentali che vengono stimolati per venderci una narrazione di comodo.