Magazine Cinema
Abbiamo perduto Alain Resnais a 91 anni, quando aveva appena presentato un film a Berlino e pensava al prossimo (“Finito un film mi butto subito a un altro progetto”, dice in una vecchia intervista. “Sono ossessionato dal tempo che passa e che perdiamo”). Ora qualcuno potrebbe dire che è morto uno di quei grandi vecchi del cinema che nelle loro ultime opere trasfondono maestosamente la saggezza profonda dell'età avanzata... come Kurosawa, De Oliveira, Eastwood. Niente di tutto questo. Con la morte di Resnais perdiamo un geniale giovane rompicollo. Perché giovane Resnais lo è sempre stato. Era un assoluto rivoluzionario, ma che non aveva bisogno di gridare, anzi faceva un cinema mosso eppure sottilmente quieto – perché la sua rivoluzione andava ben più in profondità.Se in generale il cinema è legato a una consecutionarrativa e temporale, Resnais la frantuma. Porta il cinema nei territori della mente – del gioco delle suggestioni e dei ricordi, dell'incrociarsi febbrile di sogno e realtà (Providence), dell'inconscio e dell'inconscio collettivo, del peso simbolico delle parole e dei nomi, del gioco combinatorio del caso (Smoking/No Smoking), della memoria in lotta col tempo. Il tempo, già. Resnais non ci crede, al tempo. Presente, passato, futuro si fondono in una linea retta (La vita è un romanzo). Quello di Resnais è un cinema sulle emozioni umane (“Tutti i miei film, almeno quelli di fiction, non sono stati altro che concepire degli shock emotivi e dar loro un seguito”); ma anziché farle emergere in forma drammaturgica da uno svolgimento narrativo basato su una consequenzialità logico-temporale (cinema-teatro) ci porta dentro il pensiero dei personaggi: il suo è, com'è stato giustamente definito, un “cinema del cervello”, si svolge in una dimensione mentale. Resnais rifiutava la definizione diffusa di cineasta della memoria e preferiva parlare di coscienza.E' interessante che nel suo cinema ci sia spesso una sorta di “istanza esterna” a cui riferirsi. Per esempio le teorie dello scienziato Henri Laborit in Mon oncle d'Amérique. I due gatti del suo fumetto che appaiono come visioni al protagonista fumettista di Voglio tornare a casa!Il romanzo in fieridi Providence. Quel vero inconscio collettivo culturale che è il cinema popolare, nella presentazione dei personaggi di Mon oncle d'Amérique, o sono le canzonette in Parole, parole, parole...O magari lo schema teatrale dei testi di Alan Ayckbourn (Smoking/No Smoking, Cuori) o di Henry Bernstein (Mélo). Nota però che questa istanza esterna non è mai definitiva e risolutiva (neanche Laborit). E' un punto fermo in un'opposizione, un paradosso. Niente determinismo per Resnais, niente soluzioni, solo questioni aperte. Pensiamo al tardo (2009) e stupendo Gli amori folli, film il/logico che in realtà pone una super-logica, esempio di un cinema-labirinto della compresenza di tutte le possibilità. Mentre il cinema di tipo narrativo-teatrale si basa sulla determinazione causale dell'intreccio e sull'esclusione logica (A non è non-A), il cinema di Resnais è una forma aperta alle infinite possibilità, a una pluralità di dimensioni e di contaminazioni (e sempre più negli anni si era stabilita una vena di delizioso humour). Non fa meraviglia che Resnais fosse avido lettore, esperto e collezionista di fumetti. Nel suo cinema, si realizza l'incrocio paradossale di uno stile rigoroso e ineccepibile con la massima apertura ai vari materiali e la massima disponibilità nel momento “avventuroso” delle riprese. Il montaggio è il momento in cui il maestro forma questa sintesi paradossale fra la libertà e lo stile. Alla fine di Providenceil vecchio scrittore morente dice a se stesso: “Credo ci sia tempo per un altro sorso”. Qui non è difficile vedere un valore metaforico. C'è ancora un po' di tempo da vivere, un libro da finire, un sorso di vino da bere. Ma questo si può applicare a tutta l'opera di Resnais: un gusto di filmare, di sperimentare - una golosa curiosità. (Il Nichelino)
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