Magazine Cultura
Una cultura da scoprire, una realtà sconosciuta e una tradizione incrollabile. Inizierò dall'Albania, da quella nazione cioè che fa parte della storia passata e presente dell'Italia e che rappresenta agli occhi di molti un serbatoio di idee e di manovalanza e per altri, invece, un problema spinoso da affrontare.
La cultura albanese è una delle più antiche dell'Europa dell'Est: il territorio albanese, di fatti, ospita ancora quella popolazione autoctona, che si insediò nel medesimo territorio molto prima delle ondate migratorie indoeuropee.
Quindi una comunità antichissima, pari alla nostra latina, ma che durante i secoli a causa della posizione strategica e di passaggio in cui si trova il territorio albanese è stata sempre mira di conquista da parte di potenze straniere. Nessuno, però, si è fermato: essendo una terra rupestre, accidentata ed astiosa, non convertibile in coltivazioni di grano e di vite (tipiche colture mediterranee), l'Albania si prestava solo come terra da depredare e saccheggiare, rendendo così ancora più povera e disabitata quella terra che non ha mai offerto molto all'uomo.
Attraversando i secoli velocemente gli albanesi sono stati dominati da Roma e successivamente da Bisanzio fino al 1453 quando Costantinopoli cadde in mano degli Ottomani. Da allora in poi l'Albania ha vissuto sotto il dominio turco conclusosi, poi, con i moti risorgimentali del 1848 e definitivamente con la scomparsa dalla mappa Europea dell'Impero Ottomano nel 1918 alla fine della Prima Guerra Mondiale. Fino al 1939, attraverso alterne vicende l'Albania è rimasta Regno indipendente, ma la vita del giovane reame è stata turbata nuovamente dall'invasione dell'Italia fascista che lo ha reso una propria colonia. Dopo la Seconda Guerra Mondiale e la caduta dei regimi nazifascisti in Europa e nel mondo l'Albania fu definita, secondo la posizione assunta dalla Jugoslavia titina, un "Paese non allineato": in altri termini una sorta di Stato cuscinetto tra le nazioni aderenti al Patto di Varsavia e quelle invece che aderirono al cosiddetto Patto Atlantico (N.A.T.O.).
In realtà, anche in Albania come accadde alla fine della guerra nelle altre nazioni che scelsero il socialismo come strada da seguire, si instaurò un regime dittatoriale di stampo militarista fondato sul collettivismo burocratico . A capo di questo regime riuscì ad erigersi un eroe di guerra, un partigiano come già era avvenuto con Tito in Jugoslavia, Enver Hoxha. L'unica differenza con gli altri Paesi socialisti fu, in quel caso, seguire l'esempio di Tito: seguire la via socialista, ma non allinearsi con le posizioni dell'Unione Sovietica, uscendo dall'ottica dello "Staterello satellite" orbitante attorno alla grande potenza e scegliendo la strada della piena indipendenza e della dittatura personale di un "uomo forte" (d'altronde in molti altri casi il popolo o la guerra hanno scelto leader carismatici per essere governati e guidati: si pensi agli Stati Uniti del "New Deal" Roosveltiano, alla Gran Bretagna di Churcill o alla Francia di De Gaulle, anche se qui ci troviamo di fronte ad una situazione molto diversa e per molti aspetti molto più complicata).
Dopo la morte di Enver Hoxha, nel 1989, dopo colpi di Stato falliti e rivoluzioni tentate si è instaurata una Repubblica basata su una Costituzione di natura Occidentale e naturalmente democratica. Ma il disastro del comunismo "Monista" si ripercuote sulla popolazione negli anni novanta, quando il Paese in ginocchio, sull'orlo di una guerra civile e senza nessuna prospettiva futura, costringe migliaia e migliaia di albanesi a espatriare in Italia, vista come l'isola felice, una sottospecie di Eden: effetto della trasfigurazione da parte delle reti televisive italiane, captate tramite antenna parabolica; di una realtà, quella della nostra Nazione, totalmente distorta e mentitrice. Così, dalla sera alla mattina, ci siamo ritrovati in casa profughi albanesi senza visto di soggiorno, inseguimenti tra la guardia costiera e i gommoni della "mala" albanese, organizzatasi subito per il traffico clandestino di "poveri cristi", immagini perforanti il teleschermo di navi zeppe di clandestini in arrivo al porto di Brindisi o Bari o Taranto. Immagini che non entrano nel video, troppo grandi e troppo grossi sono i problemi e le emergenze per le nostre capacità: e ci troviamo di fronte all'immobilità delle istituzioni, all'incapacità delle forze dell'ordine, all'inadempienza e alla negligenza dei politici e delle autorità compenti.
Il problema, oggi, è ancora vivo, ma un'albanese morto in mare durante un tentativo di sbarco sulle coste pugliesi non fa' più notizia: ora l'albanese fa' notizia solo quando, ubriaco, investe un bambino italiano.
Il Kanun
Un aspetto significativo della cultura albanese è certamente il "Kanun" (il Canone). E' interessante esaminare quest'argomento poiché ha molte affinità con la "faida" tra famiglie nemiche diffusa in ambienti mafiosi, camorristi e della malavita sarda.
Il Kanun è la raccolta di regole e precetti utili per vivere meglio e in simbiosi con gli altri e con l'intera comunità: queste leggi orali, tramandate da padre in figlio, risalgono al 1400 circa, quando due nobili gentiluomini vollero fare quello che Monsignor della Casa, sotto consiglio di Galeazzo Florimonte, Vescovo di Sessa, fece con il "Galateo". Con l'unica differenza che mentre nell'opera di Monsignor della Casa si mettono in evidenza per lo più i modi di comportamento, il corteggiamento di una dama e come adoperare "gentil maniere", nel Kanun vengono dettate vere e proprie regole di comportamento in qualsiasi situazione e in qualsiasi circostanza: quindi, come agire quando si è offesi o quando viene ucciso un componente della famiglia... il bello di questa faccenda è che per secoli la gente di Albania ha seguito e rispettato le regole del Kanun, rielaborate e finalmente portate per iscritto a metà '800 da un ecclesiastico.
Il Kanun, infatti, prevede, in circostanze luttuose e di omicidio, una faida spietata che continua all'infinito, finchè i componenti maschili della famiglia rivale siano completamente estinti!
Uno scrittore ha colto in maniera folgorante la realtà albanese in tutti i suoi molteplici aspetti: è il famoso autore della "Piramide" e del "Palazzo dei sogni", Ismail Kadarè, il più importante e acclamato scrittore albanese, ancora vivente e residente a Parigi, in attesa ormai da anni del Premio Nobel per la Letteratura.
In un romanzo dal titolo "Aprile spezzato", Kadarè narra, appunto, la storia di due famiglie in conflitto tra loro. Una notte, scrive l'autore di Argirocastro, in un villaggio albanese, un uomo, probabilmente un viandante, un forestiero, bussò alla porta di una casa per chiedere asilo ed ospitalità per la notte; quelli della casa, i "Berisha", come voleva il Kanun, lo accolsero come se quello stesso fosse il padrone. Il mattino seguente l'ospite andò via di buon'ora, ma arrivato alla strada fu raggiunto da un colpo di fucile: cadde a terra privo di vita... L'uomo era stato accompagnato fino ad un certo punto dal componente più giovane della famiglia, che non appena aveva avvertito lo sparo si era girato ed aveva visto il corpo senza vita per terra, immobile... era scappato a casa e aveva raccontato tutto ai suoi, ma purtroppo non aveva visto chi aveva sparato.
"Secondo il Kanun, l'ospite, accompagnato sotto la protezione della "Besa" (la parola data), doveva essere vendicato da colui sotto i cui occhi era stato ucciso".
Nacque una disputa sul fatto che il morto aveva già lasciato la casa prima di essere ucciso, che il ragazzo che lo accompagnava aveva già girato le spalle al momento dello sparo, che era già oltre il confine del villaggio, ma a queste obiezioni fu risposto dalle autorità, riunite in un'apposita commissione, che quando il forestiero era caduto sotto il colpo era da considerare ancora ospite della famiglia, quindi dovevano vendicarne la morte... Un altro problema sorgeva: non era stato identificato l'assassino!
Ma ben presto venne fuori che era stato un giovane dei "Kryeqyqe", una famiglia del villaggio, che per riparare ad un'offesa subita aveva ucciso il viandante.
Così scoppiò una sanguinosa faida che aveva mietuto fino a Gjiog Berischa, il protagonista del romanzo, ben quarantaquattro vittime.
Gjiorg, intanto, è cresciuto tra lutti, lacrime e vendetta e un giorno finalmente tocca a lui: sventolano le camicie sporche di sangue, simbolo delle ultime vendette non ancora pareggiate. Quelle camicie stanno a significare non solo che la vendetta non è compiuta, ma anche che la faida non si arresta e in giro, attorno casa, si vedono uscire solo donne, gli uomini restano in casa segregati: certo, perché la vendetta è una cosa esclusivamente "da uomini" e coinvolge soltanto loro. Se invece le camicie, stese al vento di aprile, fossero state rientrate in casa avrebbe significato che la faida era stata fermata dalla famiglia colpita per una tregua e che sarebbe finita nel momento in cui le camicie sarebbero state stese di nuovo fuori.
Allora non restava più niente da fare si doveva affrontare la situazione e aspettare il proprio turno per macchiare la camicia del vicino di sangue e terra.
Ora, toccava a Gjiorg, non ricordava neanche quanti lo avevano preceduto e non si domandava se era giusto o sbagliato, certo era che aveva una gran paura addosso, tremava e non sapeva cosa fare: ma non aveva scelta o affrontare la situazione o fuggire come un vigliacco, scappare lontano, diventare un nomade senza casa e sapendo che fuori, in giro c'era qualcuno che lo cercava e voleva ammazzarlo... Gjiorg Berisha decise di andar avanti, di continuare la faida e uccise l'assassino di suo fratello vendicando il suo onore e mantenne "la parola data" (la "Besa").
Ho avuto la fortuna di conoscere un ragazzo albanese: uno dei tanti Gjiorg Berisha che è partito dalla sua casa a Tirana ed è venuto in Italia, a Roma a cercar fortuna. Ormai sono quasi dieci anni che si trova in Italia e si è creato una famiglia, ha trovato un lavoro, ha una casa, ma un anno fa durante una conversazione telefonica con i suoi genitori, la madre lo avvertiva, singhiozzando al telefono, che il più giovane della famiglia rivale alla sua volendo salvare l'onore del fratello ammazzato qualche tempo prima, aveva scoperto dove si trovava il mio amico, aveva l'indirizzo preciso ed era intenzionato a venire fino in Italia per ucciderlo.
Ricordo il clima di terrore che in quei giorni si respirava in casa del mio amico albanese: la compagna italiana completamente ammutolita e come tramortita dalla notizia, la solitudine e l'emarginazione in una città ed in un Paese che non gli apparteneva, già molto evidenti e pesanti da sopportare, allora diventavano, per lui, opprimenti ed asfissianti.
I giorni sono passati e fortunatamente anche i mesi sono fluiti via tranquilli, ma se ancora oggi ritorniamo, con il mio amico albanese sull'argomento, egli inizia a tremare e balbettare per la paura e per l'insesatezza di certe azioni umane.
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