Alberi della memoria.

Da Suster
Le nostre vacanze romane volgono ormai al termine, in ogni caso.
Questo ponte della Befana che per chi lavora ha significato un colpo di coda delle ferie, per noi è stato solo un prolungamento, apprezzato.
Nel fine settimana ci siamo moltiplicati, e la casa di mia madre si è riempita di figli e gatti (per sua somma gioia), visite di amici in vista del prossimo congedo e amici di figli birrai, intenti a birreggiare in garage. A volte rimango ammirata dalla tollerante pazienza di mia madre di fronte alle invadenze di noi pargoli cresciutelli... soprattutto quando considero con quale sollievo abbia salutato l'avvento dell'era post-gatti e di come invece di buon grado abbia accettato che casa sua divenisse ricovero temporaneo per i nostri.
Comunque, approfittando di un tepore più autunnale che invernale, come del resto confermano le tenaci foglie dorate ancora saldamente ancorate ai loro rami di origine, ci concediamo l'ennesima passeggiata mattutina nel piccolo giardino condominiale antistante, dove a dispetto dei colori autunnali l'erba sottostante già lascia spuntare qua e là le prime pratoline, che la pupa raccoglie a tappeto. Come dire: da una mezza stagione all'altra.
Mi stupisco sempre di come gli alberi siano in grado di modificare i luoghi.
Ripenso al post di un'amica blogger, e ai suoi auguri di "tanti alberi".
Qui, in questo piccolo pezzo di terra, ce ne sono soprattutto tre, alla cui presenza si lega il mio ricordo.

Quercia

Che conobbi querciolo, e ricordo esile fuscello arboreo che non avresti stimato capace resistere una stagione.Ma io di arboricultura non me ne intendo, si vede che mi manca la pazienza di aspettare.E ripenso alla "Storia di una quercia":
"Chi mi ha dato il luogo penserà anche al tempo"
A Natale abbiamo preso l'abitudine da qualche anno di scambiarci memorie. Un modo per costruirci insieme una memoria familiare comune, forse, un terreno fertile per accogliere nuove energie vergini (nuovi virgulti, dovrei forse dire per completare la metafora). Un racconto, una lettera, una serie di foto, memoria da tramandare, da rendere oggettiva, per dare spessore a quella individuale.

Pino

Che conobbi pinolo, dentro un vaso, su un terrazzo all'ottavo piano, e che poi trapiantammo qui, col cambio casa. Di dieci, tre superstiti, ma non diresti mai che erano quei semi, quel tronco che oggi la pupa abbraccia, accarezzandone la corteccia, su cui accosta l'orecchio per udirne la voce...

Resti della mimosa

Che ricordo frondosa e odorosa: una sparata di giallo davanti alla finestra della nostra cucina, in primavera, poi un grottesco mezzo cadavere: rinsecchita per la metà, si vede che qualcuno ne aveva recise le radici da un lato... forse. Fatto sta che poi l'abbatterono, ed ora la pupa vi fa palestra di esercizio dei suoi diritti naturali al selvaggio, allo sporcarsi, al contatto col mondo naturale.

Ulivo.

Che forse confondo con un altro piccolo ulivo, che tenevamo in vaso, davanti al cancello del giardino, ma di cui ricordo soprattutto il sapore delle olive sotto sale, di cui mia madre rifornisce ogni anno cospicuamente le nostre dispense e quelle di parenti e conoscenti. E di cui lei va ghiotta!
Alberi. Nel loro lento, paziente, ciclo vitale, il tempo sembra assai più evidente che nel nostro. Perché loro appaiono immobili, e la loro memoria assai più duratura, contenuta nel loro stesso esistere.
La nostra, invece, sfuma nell'indefinito, e confonde immagini e sovrappone momenti, e tralascia periodi che ritiene poco significativi. Forse è perché perdiamo il contatto con le nostre radici, e non sempre sappiamo approfittare dei momenti di quiete per rigenerare in noi nuova linfa vitale.
Qui tempi morti non sembrano esistere.
E in se custodiscono memorie di più vite.
E ancora mi stupisco di come gli alberi siano in grado di modificare i luoghi.

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