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Alberto Cellotto - Traviso

Da Ellisse

Alberto Cellotto - Traviso - Prufrock 2014Alberto Cellotto - Traviso - Prufrock 2014
Forse proprio partendo dai due exerga (uno di Camus, l'altro di Baudelaire) bisognerebbe provare a farsi un'idea  di  questo libro di Alberto Cellotto, che  inaugura programmaticamente questa collana (hence le joie) delle Edizioni Prufrock. Il primo, tratto da La caduta, recita: "Dopo una certa età, ognuno è responsabile della sua faccia". L'altro, dalle Opere postume: "Tutto è numero". Dice inoltre una nota editoriale; "Traviso è un tentativo di scrittura breve e intervallata dal protagonismo del numero che sta tutto nell’alveo di un’ ossessione precisa, cioè quella per il volto dell’uomo, per quel pensiero che raduna le diverse combriccole dei volti, quando si percepisce che ogni viso è legato a ogni altro. Allo stesso tempo il travisare diventa un nascondimento necessario, forse per provare a uscire dal loop dell’ossessione". Mi viene sempre da pensare in questi casi, sia detto per inciso, che per fortuna spesso gli autori sono migliori delle loro dichiarazioni di poetica o di quelle dei loro editori. Questi due o tre dati a cui ho accennato tuttavia non aiutano più di tanto, a parte forse a illuminare un po' il titolo. Ammetto intanto di non capire che cosa significhi il "protagonismo del numero" (vedo che i testi sono numerati secondo la serie dei numeri primi 1, 2, 3, 5, 7, 11 ecc., tranne il primo [1] e l'ultimo [72]), ma posso ipotizzare, per pura speculazione intellettuale, un paio di cose:  che il poeta voglia indicare una unicità, una solitudine (come nel titolo di Paolo Giordano, ricordate?) dell'individuo (e forse del poeta) che però si riverbera nelle unicità degli altri o forse vi si può sovrapporre. Al punto, quindi come accenna la nota, di "travisarlo", come in una specie di morphing. Restando tuttavia l'individuo di fatto indivisibile, esattamente come i numeri, pur nella serie infinita delle esistenze e del loro comune luogo di essere. Uno è un altro, per dirla stiracchiando un po' Rimbaud. Ma,  soprattutto in questa poesia, non necessariamente io (il poeta) è un altro. Per la ragione principale, a mio avviso, che questo libro ha un evidente carattere concettuale, "esterno", costruito com'è sull'accostamento, per me un po' artificiale ma peraltro non peregrino, tra questi due paradigmi, il volto e il numero, e sulla forma, rigorosamente fissata in sette versi, che però ha una sua precisa estetica, la stessa fredda estetica indivisibile dei numeri primi. La struttura stessa dei testi costituisce un "frame", sia in senso semantico (cornice e sintesi di una conoscenza, in questo caso poetica), sia in senso cinematografico (fotogramma), costruito con una certa abilità. E' il volto allora, se si accetta l'assunto della nota, quel volto che è la prima evidenza dell'identità e di cui, secondo Camus, dopo le tracce lasciate da un adeguato numero di anni, ciascuno di noi è responsabile, ad essere il campo di indagine di questa poesia. Il volto molto presente o accennato che incontri spesso nei versi (volto e i suoi "parenti" semantici viso, faccia, orecchio, gola, mento, sorriso, occhi, guancia),  còlto, come qui altre "emergenze" del vivere o altri eventi e constatazioni, per fotogrammi, come dicevo prima,  la cui velocità lascia nell'occhio uno stascico perturbante. Il quadro complessivo, nella magrezza della "scrittura breve", è quello di un ambiente urbano, di una "periferia di zolfo", di "aria pesta", di strade bagnate, di un grigiore diffuso, "un grigio / viaggiare di visi giunti / senza vento fin qui". Il tema di fondo è, anche qui, quello di un malagevole vivere contemporaneo vissuto però individualmente, senza echi per così dire "civili", un tema che mantiene ancora saldamente la sua fascinazione un po' manierista nella poesia italiana di oggi. Il "noi" o il "tu" generico e impersonale che marcano la presenza di "qualcuno" all'interno di queste cornici suggeriscono non tanto, come dice la nota, che ogni viso è legato ad un altro, ma che è anche intercambiabile, direi senza peso "politico", e perciò ininfluente davanti a un destino invariabile. E che forse travisarvisi dietro è inutile quanto nascondersi dietro la propria stessa faccia. (g.c.)
11.
E poi è così che aspettavamo
       ancora l’agguato della pioggia
       e il sonno ai semafori: per attraversare
       con loro le strade. La stessa
       conoscenza delle ruote che girano,
       un vento senza pensieri
       di ramo.
13.
Solamente la distanza dai civili
       usi e terreni, solo il lontano: unico
       oggetto che sento. Esperto paesaggio
       sporgente, serrato a festa.
       Per me o te la strada bagnata e i raggi
       vecchi, la vietata vista, i becchi
       nei cortili.
29.
Il viso riscopre il mondo quando
       sente di avvicinare i vetri,
       davanti le persiane: viene a vedere
       questa periferia di zolfo.
       Ci fermiamo per prendere
       un boccone di aria pesta annusata
       abbaiando.
31.
Sta per finire per sempre il dovere.
       Dove ti riprendi l’allegria
       adesso, dove si mangiano i figli?
       Quasi mai sai e accetti la guardia
       del piacere, la stuoia di questa
       pioggia che gioca già con tutte
       le ere.
41.
Con quale viso ci staremo davanti
       tra il tanto e il poco e mattini
       spenti, e quale sorte esce scoperta
       nei volti, quanto si prova a ricordare?
       Abbiamo inventato la storia perché
       è vero mare quello che nasconde
       i suoi manti.
47.
La voce è tatuata con quel sorriso
       troppo adulto e marcito
       sopra il mento; ne è un grigio
       viaggiare di visi giunti
       senza vento fin qui, rivolti
       alla verità che proprio è una palla
       spostata di friso.
59.
Inarticolato come l’osso ioide.
       Una conclamata malattia di giornata.
       Deglutire, dire, asciugare la gola…
       e la lingua, dirla usarla, è fare un salto
       che atterra su due posti. Poi i sensi
       della colpa, che sfidiamo contromano,
       su celluloide.
71.
Tra viso e viso passa un prato
       arido diviso con l’aratro.
       I solchi sono la strada,
       vedere l’orecchio rovesciare
       il taglio, il senso, le terre
       rare che attendono allagate
       da un lato.
Alberto Cellotto è nato a Treviso nel 1 978. Ha scritto i libri di poesia  Vicine Scadenze (Editrice Zona, 2004), Grave (Editrice Zona, 2008) e Pertiche (La Vita Felice, 201 2). Ha tradotto dall' inglese opere di Gore Vidal, Stewart O'Nan e Frank Norris. Cura il blog Librobreve. Altro su albertocellotto.it

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