Incontriamo Alberto Fasulo in un albergo romano per parlare del suo Tir, vincitore dell’ultima edizione del Festival Internazionale del Film di Roma e dal 27 febbraio nelle sale sotto l’egida distributiva della Tucker Film (oltre alla Capitale, coperte anche Milano e buona parte del Nord-Est italiano di cui il regista è originario). Un film bello, importante e travagliato quello del regista friulano, dalla gestazione durata un intero lustro e dalla genesi al confine tra il film di finzione e il documentario. Una distinzione che però probabilmente è ormai vecchia e inadeguata come mai prima d’ora, nonché una barriera che il film di Fasulo ha il merito di contribuire a bypassare si spera definitivamente.
Sacro Gra prima e Tir poi hanno dopotutto offerto al cosiddetto “cinema del reale” una ribalta fino a qualche tempo fa impensabile, che può e deve far riflettere anche chi in passato era stato poco avvezzo a porsi certi problemi o incline piuttosto a liquidarli con faciloneria. Allargando, allo stesso tempo, le maglie di una riflessione formale su un certo tipo di cinema che chiede a gran voce di essere riconsiderato e ripensato, nella sua urgenza e nella sua ansia di verità.
Alberto Fasulo, come nasce il tuo film?
Il punto di vista su cui mi sono soffermato è quello di una cabina in cui il protagonista, il camionista Branko, vive, dorme, mangia e lavora. Volevo che fosse un ambiente per me il più possibile familiare, che desse una sensazione d’intimità come se stessi spiando nella camera da letto di questo personaggio. Queste persone di norma lavorano per un mese e poi tornano per una settimana a casa, ripetendo la cosa a intervalli regolari. La dimensione personale della loro identità si forma solo in quelle quattro settimane, per cui è veramente difficile raccontare dal punto di vista psicologico qualcuno che nessuno vede mai, un uomo abituato alla solitudine.
Hai mai pensato di realizzare il tuo film come un’opera di finzione?
Sì, naturalmente, ma non potevo perdere il rapporto con la realtà sviluppato nei tanti anni in cui sono stato in contatto con questa storia. Quando una storia reale viene proiettata in una sala di 2000 posti personalmente non posso non pormi dei dilemmi etici, che poi sono gli stessi confini morali del documentario, di ciò che può essere mostrato o no. Una storia così cortocircuita con la finzione, che a volte permette di essere paradossalmente più veri di quando si rappresenta la realtà da vicino. Io però non volevo fare in alcun modo un film d’inchiesta, né mi piace il documentario tradizionale con la voice-off usata per risolvere buchi narrativi o problematiche di regia. Come in Rumore bianco (il precedente film di Fasulo, ndr) ho voluto star vicino ai personaggi, rimanere accanto a loro: solo io che filmo e le persone che si muovono davanti a me.
Come giudichi la condizione attuale degli autotrasportatori?
Non saranno certo Branko o il mio film a cambiarne le sorti, soprattutto in tempo di crisi economica. Sono persone che nessuno vede mai, uomini a bordo di veicoli spesso ibridi: un uomo di una nazionalità si ritrova a guidare un veicolo di un’altra provenienza, magari con una targa di un altro paese ancora. Con la dislocazione delle aziende italiane all’estero, si tratta di un fenomeno sempre crescente. Oggi i più economici sono i rumeni, che infatti stanno invadendo il mercato molto di più rispetto ai polacchi, ai croati e agli sloveni, ma non tutti hanno un medesimo costo, considerando anche che spesso vengono pagati in base ai chilometri effettivamente percorsi. Molti di loro nel proprio paese svolgono dei mestieri completamente diversi e una volta finito di accumulare il denaro necessario per pagarsi le spese extra tornano a casa. Ovviamente neanche loro hanno la serenità dovuta nella percezione del futuro, e la sensazione che tutto possa crollare da un momento all’altro c’è sempre. Il fatto che Branko molli il lavoro non è accaduto davvero, è una cosa dovuta più al mio idealismo che ad altro. Mi serviva un personaggio capace di compiere un gesto simile, ne avevo bisogno io per primo.
Come si è concretizzata l’ideazione del film?
Assolutamente non a tavolino: è una storia che si è sviluppata in itinere, prendendo vita da mie esperienze, da conversazioni o episodi che mi sono accaduti. Parlando nelle aziende, ad esempio, ma mai sedendomi e decidendo di redigere la storia o di orientarla in modo programmatico. Il soggetto l’ho sviluppato poi per circa due anni.
Branko ha avuto modo di vedere il film?
Sì, ha riso per tutto il tempo della proiezione! In realtà gli avevo già fatto vedere una quindicina di minuti, quando il film era ancora in montaggio.
Qual è stato il tuo rapporto con Branko e com’è maturato nel corso del vostro viaggio insieme?
Con lui c’è stato grande affetto e partecipazione. Abbiamo viaggiato in Europa per quattro mesi tracciando una X sul Vecchio Continente, dalla Svezia a Roma passando per Siviglia e Budapest. Non è un eroe, uno che va a donne, che si vanta e fa il figo come qualcun altro potrebbe fare vivendo lontano dalla famiglia e dagli affetti. Fa tutto per necessità, perché la guerra giocoforza gli ha fatto perdere dignità. Come professore di matematica guadagna 450 euro, come camionista arriva anche a 1200-1300. Vivendo con lui, più andavo avanti e più sentivo l’urgenza di raccontare questa storia. Il mio film è un “falso movimento”, senza necessariamente dover citare Wim Wenders, un on the road stando seduto, chiuso in una cabina. La mia scommessa artistica.
La vittoria al Festival di Roma te l’aspettavi?
Assolutamente no, è stata una totale sorpresa e mai con il mio cinema ho coltivato simili ambizioni. Eppure del film sono rimasti sorpresi tutti i giurati: è piaciuto ad Amir Naderi, a Luca Guadagnino e soprattutto al presidente di giuria James Gray, che ne ha apprezzato l’umanità e non appena l’ha visto mi ha chiesto come l’avevo realizzato nel concreto, oltre a parlare personalmente con Branko. Il film poi è stato venduto in Australia, Francia, Slovenia, Ungheria, è andato al Festival di New York e a quello di Mosca. E’ un film che divide, ma quando piace a quanto pare il gradimento si manifesta in forme particolarmente intense. Io e mia moglie, che è anche produttrice del film, siamo di ritorno da Berlino dove abbiamo avuto ottime soddisfazioni sul fronte delle vendite internazionali (il Film Market della Berlinale è uno snodo cruciale, non solo a livello europeo, ndr), per cui siamo davvero molto felici. Oltretutto il film è già stato pre-acquistato dalla Rai, ma non so quando verrà mandato in onda.
Al di là della divisione tra documentario e finzione (il regista georgiano Otar Iosseliani, nei giorni scorsi a Roma, ha detto: “Non esiste documentario, quando si mette in campo una macchina da presa è tutta finzione”), pensi che il tuo film possa avere un valore di “documento sociale”?
Penso di sì. E’ un’istantanea di quel periodo oltretutto, da giugno a ottobre; l’avessi fatto in un altro periodo o in un altro anno non sarebbe stata sicuramente la stessa cosa.
Pensi che il documentario stia avendo un’influenza significativa in positivo sul cinema di finzione? Se pensiamo alle epidermidi in fiamme de La vita di Adèle, per esempio, è evidente un’ansia bulimica di realtà, in quel caso da parte del regista. Tir per altro a Roma era in concorso insieme a film come Lei o Dallas Buyers Club, che adesso si ritrovano candidati agli Oscar…
Qui il merito va ai selezionatori del Festival, che hanno avuto il coraggio di metterli insieme e sullo stesso piano. Di questi tempi, dove siamo tutti attaccati ai cellulari e sempre altrove anche quando siamo qui, trovo sia legittimo cercare la verità almeno quando si filma, a caccia del respiro vero della vita. Sei dentro a un momento, e trovo che in questo senso il documentario stia alzando l’asticella. La vittoria mia e quella di Sacro Gra di sicuro aiutano: quando ho iniziato a studiare e poi a lavorare io, avere una distribuzione in sala per un documentario era sì una speranza e una progettualità, ma anche una mezza utopia. Oggi invece Sacro Gra esce in 40 copie, è un segnale incoraggiante.
C’è qualche opera che ti ha ispirato nel tuo lavoro?
In realtà ho sempre paura di sentire e leggere opere affini tematicamente a quella che sto facendo io e alla quale sto lavorando anima e corpo per timore di essere influenzato troppo. Preferisco mantenere una purezza di sguardo. E pensare che c’è chi mi chiede se ho visto Duel! Sì, da bambino, ma con il mio film non ha nulla a che vedere naturalmente. A me bastano 1500 euro al mese, mi considero un operaio normale, anche se faccio cinema.
Tir quanto è costato?
350.000 euro.
E il gasolio?
Quello l’ha pagato l’azienda, anche perché Branko per girare il film ha lavorato realmente.
Progetti futuri?
Sto lavorando già da tre anni con delle famiglie che hanno dei figli disabili (disabilità di tutti i tipi, nessuna distinzione), sedici nuclei familiari in tutto. Ormai con loro si è instaurato un rapporto di fiducia che va ispessendosi sempre più. Sono genitori che vedono la loro prole un giorno ogni quindici. Non intendo fare un film con i luoghi comuni classici dei film sulla disabilità, facendo vedere carrozzine e simili. Lavorando su questo tema sto scoprendo una cosa: quando in una famiglia c’è anche un solo membro che è disabile, lo diventa tutta la famiglia.
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