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Alberto Moravia: La noia

Da Silvy56
Alberto Moravia: La noia
"Proprio di fronte alla finestra della mia stanza, nella clinica in cui ero stato trasportato dopo lo scontro, si alzava nel giardino un grande albero […]. Presi a guardarlo per ore […] , tutte le ore, in realtà, che non dedicavo al sonno e ai pasti, perché ero quasi sempre solo […] . Guardavo l'albero e provavo un sentimento di disperazione totale, ma calma, e per così dire, stabilizzante, quale appunto si può provare dopo essere passati attraverso una crisi, che, pur non essendo risolutiva, si suppone tuttavia che sia il massimo che si possa affrontare […] se non altro, mi faceva pensare che avevo fatto quanto era in mio potere; più di questo non avrei potuto fare […]. Tutto questo non mitigava il sentimento di disperazione che mi occupava l'animo; ma v'introduceva una certa quale serenità funebre e rassegnata […], non mi restava che vivere […].In realtà non ero quieto, ero soltanto fortemente occupato dalla sola cosa che in quel momento mi interessasse davvero: la contemplazione dell'albero. Non pensavo niente, mi domandavo soltanto quando e in che modo avevo riconosciuto la realtà dell'albero, ossia ne avevo riconosciuta l'esistenza come di un oggetto che era diverso da me, non aveva rapporti con me e tuttavia c'era e non poteva essere ignorato. Evidentemente qualche cosa era avvenuta […]; qualche cosa che, in parole povere, si poteva definire come il crollo di un'ambizione insostenibile. Adesso contemplavo l'albero con un compiacimento inesauribile, come se il sentirlo diverso e autonomo da me, fosse stato ciò che mi faceva maggiore piacere […]. Qualsiasi altro oggetto, come mi rendevo conto, mi avrebbe ispirato lo stesso genere di contemplazione, lo stesso sentimento di inesauribile compiacimento. E infatti, appena cominciai a pensare di nuovo a Cecilia, mi accorsi che mi avveniva lo stesso di quando guardavo, attraverso la finestra, all'albero. Erano trascorsi dieci giorni dallo scontro e Cecilia si trovava certamente ancora a Ponza con Luciani […]. Sapevo per esperienza che felicità sia trovarsi con la persona che si ama e che ci ama, in un luogo bello e calmo, ero sicuro che Cecilia pur nella sua maniera economica ed inespressiva, era felice, e mi stupivo di accorgermi che ne ero contento. Si, ero contento che fosse felice, ma soprattutto ero contento che lei esistesse, laggiù nell'isola di Ponza, con l'attore; e noi eravamo due e lei non aveva niente a che fare con me e io non avevo niente a che fare con lei, e lei era fuori di me, come io ero fuori di lei. E, insomma, io non volevo più possederla bensì guardarla vivere, così com'era, cioè contemplarla […]. Questa contemplazione non avrebbe mai avuto fine appunto perché io non desideravo che finisse, cioè non desideravo che l'albero, o Cecilia, o qualsiasi altro oggetto al di fuori di me, mi annoiasse e di conseguenza cessasse per me di esistere. In realtà, come mi accorsi improvvisamente, con un senso quasi di meraviglia, io avevo definitivamente rinunciato a Cecilia; e, strano a dirsi, proprio a partire da questa rinunzia, Cecilia aveva cominciato ad esistere per me. […] Così alla fine, il solo risultato veramente sicuro era che avevo imparato ad amare Cecilia, o meglio, ad amare senza più. Ossia speravo di avere imparato…"

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