Alcune riflessioni (paranoiche) sulla vendita del Milan

Creato il 11 aprile 2015 da Aplusk

Il made in Italy sta morendo. Ciò che è propriamente pensato, sviluppato, impacchettato, consegnato, prodotto, gestito e spedito all'interno del nostro paese è sempre più un'isolata minoranza.


In qualsiasi settore ci spostiamo, c'è spesso il ricco zampino di qualche facoltoso investitore. Recentemente: Porta Nuova (Milano), Frecciarossa, Krizia, Telecom, Alitalia sono passate in altre mani. Potrei continuare ancora. Questa svendita totale del marchio italiano è dovuta per lo più alla necessità di introdurre energie fresche - e monete sonanti - all'interno di gloriose aziende in difficoltà.

Il Milan non fa eccezione, e qui veniamo al punto. Fine aprile, maggio, forse giugno, la data è solo lì per essere fissata, la vendita parziale (probabile) del club di Silvio Berlusconi è solo questione di tempo. Inizialmente sembrava si trattasse del 30% delle quote, ora sembra più probabile il 60%; una bella fetta che conferirebbe il timone del controllo in mani thailandesi o cinesi, questo è solo da decidere. Fosse per Marina Berlusconi, la tavola delle trattative sarebbe già stata apparecchiata da tempo, eppure ci è voluto molto tempo per maturare la (non) sofferta decisione di cessione, da quando girarono le primissime voci, era il 2009: prima Mohammed bin Rashid Al Maktoom, poi Rezard Taci, Gazprom e lo sceicco di Al Jazeera Al Thani, oggi è corsa a due tra Thailandia (per ora ha mostrato il volto solo il broker Bee Taechaubol) e Cina ( Richard Lee sarebbe a capo di una cordata formata da Wahaha di Zong Quinghou, la Wanda Group di Wang Jianlin e i giganti delle telecomunicazioni Huawei oltre ad Alibaba di Jack Ma)

Alcune riflessioni (paranoiche) sulla vendita del Milan

I recenti casi di cronaca hanno però posto l'accento sull'importanza della serietà-credibilità-affidabilità di un acquirente di un club di calcio. Il caso Manenti-Parma ha dato molto più di una semplice dimostrazione di quanto possano essere (sportivamente) drammatiche le conseguenze di un bluff che si improvvisa investitore. Non dimentico le parole di Alberto Forchielli, imprenditore bolognese e capo di Osservatorio Asia, che alla fine di febbraio aveva dato il suo parere su uno dei due candidati alla scalata del Milan.

Vi riporto le sue parole: "Taechaubol è figlio di un consulente dell'ex primo ministro della Thailandia. Ha aperto 15 aziende e 10 di queste sono fallite, quella che sta meglio nell'ultimo anno ha perso circa 100 milioni di baht a bilancio. Mi sembra più che un imprenditore una specie di furbetto di quartiere che cerca di arricchirsi, come Ricucci o Fiorani. Più che mister Bee lo chiamerei mister Bean, prima dell'offerta al Milan non lo conosceva nessuno neanche in patria".

Se è vero che nel calcio non si investe per guadagnare direttamente ma, in genere, per una qualche strategia legata al mercato di riferimento (cinese o thailandese che sia) allora è probabile che l'obiettivo primario di chi entra non sia propriamente quello sportivo; il bene del club per dirla in soldoni. Ci sono interessi e tornaconti personali o di ampio raggio. Per essere concreti: si dice che dietro Richard Lee ci sia l'avvallo del governo di Pechino, interessato a entrare con prepotenza nel calcio europeo; può darsi.

Allora viene da domandare: oltre alle strategie sul fronte economico-politico di chi compra, esiste anche un progetto serio sul piano sportivo? E se sì, quale?

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