Chi era Alda Merini (1931-2009)? Quando, tra qualche anno, un giovane avanzerà questa curiosità, anche i più acuti intellettuali troveranno forti difficoltà a rispondervi. Perché quella scomparsa quattro anni fa non è stata solo una poetessa fra le più grandi del nostro tempo nonché la prova provata di come i giganti, quelli veri, da qualche decennio a questa parte siano puntualmente esclusi dai Nobel. No, Alda Merini è stata molto di più. E la sua vita, un’avventura costellata di incontri speciali – da Giacinto Spagnoletti (1920-2003) a Salvatore Quasimodo (1901-1968) – lo sta a dimostrare.
Tuttavia nemmeno il successo, tardivo per lei che esordì giovanissima, seppe allontanarla dal suo mondo, i Navigli. In un mondo globalizzato che antepone la necessità della fuga all’opportunità di una meta, Alda Merini aveva infatti scelto di non nascondersi dentro auto, treni o aerei, perché aveva capito che la pellicola della vita scorre prima di tutto tra le pareti della mente. Ed era stata agevolata, in questo, da esperienze forti e devastanti come solo la follia può essere. Gli anni passati in manicomio le hanno spalancato corridoi interiori sconosciuti a chiunque altro, che lei sintetizzò magistralmente ne “La pazza della porta accanto”.
Ma i suoi versi hanno anticipato e superato anche la stagione dei labirinti mentali, perché non è stata la follia a farla poetessa, ma la sua poesia a vincere l’oscurità; ha combattuto contro gli stessi fantasmi che intasavano i mondi di Dino Campana (1885-1932) e di Amelia Rosselli (1930-1996), ma ha avuto più fortuna. Anche se poi, quando si è trattato di ricominciare a vivere, si è trovata di fronte un avversario altrettanto terribile: la solitudine. E’ un’ombra che ci accomuna tutti, e Alda Merini lo aveva capito. Proprio per questo dava un peso relativo alle pur numerose visite che riceveva, perché sapeva che solo la fiamma dell’amore può farci strada, quando cala il tramonto. Il resto sono solo saluti, sorrisi ed effimeri attestati di stima.
Nei suoi ultimi anni, viveva accerchiata da appunti e scritte sulle pareti che facevano di casa sua una sorta di immensa agenda, dove segnare tutto quello che la mente rifiutava, impegnata com’era a decifrare, sia pure senza troppa pubblicità, l’ultimo grande mistero, la morte. Non si conoscono, a quanto si sa, le sue ultime parole. Ma se avesse potuto esprimerle in versi, siamo certi che – lei che la vita l’aveva pagata cara – lo avrebbe fatto componendo un altro capolavoro. Perché la poesia, come diceva Marianne Moore (1887-1972), altra grande poetessa, è sempre la prima necessità.