Occupazione india e violazione dei diritti umani del governo brasiliano
Testo: Mauro Villone; Foto: Mauro Villone e Lidia Urani
Aldeia è una parola portoghese che significa villaggio o comunità. Aldeia Maracanà significa dunque Villaggio Maracanà. Maracanà, il nome di uno degli stadi più famosi del mondo, è invece una parola india, che per gli indios non ha niente a che vedere con il calcio, designando invece un uccello giallo tropicale.
Nei pressi dello stadio, dove si trova un gigantesco cantiere dove vengono spesi una parte dei 270 miliardi di Reali (circa 100 mld di euro) destinati a Coppa del Mondo e Olimpiadi, si trova anche un’antica costruzione che fino a un po’ di tempo fa era sede del Museo degli Indios. Un edificio storico, risalente al XIX secolo con una storia singolare alle spalle. Marechal Candido Rondon un militare, politico e studioso brasiliano, nato nel 1865 in Brasile e in parte di origine india, l’aveva donato alla comunità di indios urbanizzati di Rio per farne un museo dedicato alla loro cultura. Naturalmente, dopo un primo entusiastico periodo, non è che le cose siano andate troppo bene. Così il Museo, per il sostegno del quale ovviamente l’amministrazione della città non è che si sia svenata, è caduto pian piano nell’oblio, fino a diventare un vecchio edificio, totalmente abbandonato dal 1978. Nel 2006 un gruppo di indios di Rio, visto che il Comune non ne faceva niente, decise di occuparlo per utilizzarlo come casa, come rifugio per indios di passaggio, come luogo di memoria storica e affettiva e da utilizzare per eventi culturali. Il posto è estremamente suggestivo e di grande valore storico, ma sono sorte alcune difficoltà per la comunità che lo occupa e quella india in generale, grazie all’approssimarsi dei Mondiali di calcio. L’amministrazione dello stato di Rio de Janeiro è interessata, ma guarda che strano, solo a fare soldi con gli eventi in arrivo quali appunto i Mondiali e poi le Olimpiadi. Mentre sembra non avere nessun interesse non solo per le popolazioni indigene, ma anche per un edificio di valore storico e culturale. Come se niente fosse intende buttarlo giù per fare un gigantesco parcheggio in vista dei grandi eventi sportivi. Immaginare (parola troppo difficile per qualcuno) che le culture indigene possano essere una risorsa sul piano culturale, etico, medico, farmacologico, psicologico, spirituale, antropologico e persino turistico e di business, neanche parlarne. Sarebbe un miracolo per chi non riesce ad andare oltre la rozzezza di azioni di polizia armate e violente. Visto che il Papa deve venire da queste parti non sarebbe male che mostrasse di essersi accorto dell’assurdità della situazione.
Come altri reporter e fotografi brasiliani e stranieri presenti a Rio siamo andati a trovare gli amici indios per solidarietà, per documentare la situazione e perché, in tutta franchezza, il posto è davvero interessante. Si presenta come un vecchio edificio in pietra abbandonato dove piante tropicali sono diventate parte dell’architettura generale. All’interno vi si trovano affreschi, graffiti, oggetti artistici, istallazioni e un’esposizione fotografica. Ma soprattutto ci sono numerose tende igloo utilizzate da chi occupa il sito e dai pellegrini di passaggio.
Fortunatamente diversi esponenti dell’intellighenzia brasiliana non sono certo insensibili al problema. E così docenti universitari, soprattutto antropologi e storici, avvocati e artisti, cercano di dare una mano alla comunità india. Persino il grande Caetano Veloso ha tenuto un concerto pochi giorni fa nel Circo Voador per sostenere la causa. Ma purtroppo sembra non bastare. Sì, perché dopo un primo momento, nel quale sembrava che il governo dello stato di Rio venisse incontro agli indios, ora ha fatto un voltafaccia incredibile quanto pericoloso. Mentre Djilma e la sua banda di ministri si gode il viaggetto a Roma per i salamelecchi al Papa, i battaglioni dello Choke de Ordem (Shock di ordine, un nome una garanzia), armati di pallottole di gomma, gas al peperoncino e fumogeni, impediscono ai cittadini che vogliono aiutare gli indios di entrare all’Aldeia. Cercano di sgomberarli con la forza. Finora non è morto nessuno e speriamo non accada.
Dal canto loro gli indios, tutt’altro che inconsapevoli del patrimonio culturale che portano nelle profondità dei loro cuori, hanno però ben pochi mezzi per difendersi. Gli sbirri tre giorni fa hanno persino impedito al loro avvocato di raggiungerli. Mentre le istituzioni brasiliane si cimentano in una delle attività a loro più congeniali: la violazione di elementari diritti umani, gli indios pregano.
Nel corso della nostra visita, insieme a brasiliani, altri italiani, spagnoli, danesi, tedeschi e persone di altra provenienza, siamo stati invitati a partecipare a una cerimonia tanto semplice e arcaica quanto toccante. Si ballava numerosi a piedi nudi in cerchio, intorno al tronco centrale di una grande capanna. A turno cantanti e musicisti si esibivano ed esprimevano le proprie preghiere. Il ritmo coinvolgente e ipnotico dei mantra indios veniva ogni tanto interrotto dalle parole del Cachique (il capo). Tra tante ricordo queste: “La nostra cultura è molto antica e per troppo tempo è stata disconosciuta e schiacciata dall’occidente. Ma i tempi stanno cambiando è finalmente l’umile profondità delle conoscenze del nostro popolo sarà riconosciuta da tutti”. Voglio sperare che abbia ragione nonostante tutto. “Un guerriero – diceva il maestro Don Juan – non crede, un guerriero Deve Credere”.
Le ragioni del business stanno piallando il mondo. Quelle che dovrebbero essere espressioni di pace come i tornei calcistici e le olimpiadi sono diventati nient’altro che macchine da soldi che usano la buona fede di giovani atleti. Il paradosso è che chi, tra i protagonisti delle gare sportive e tra il pubblico, crede nello sport è ignaro delle conseguenze che a tutti i livelli, portano a violazioni gravi. È mai possibile che le olimpiadi possano portare a interventi armati della polizia su minoranze inermi? D’altra parte sia i mondiali che le olimpiadi sono occasioni di sacrosanto lavoro per moltissima gente. È così difficile aprire gli occhi è andare verso l’equilibrio? Possibile che i grandi media di tutto il mondo siano diventati degli impiegati dell’informazione incapaci di indagare su realtà che sembrano lontane mentre invece ci sommergono fino al collo?
Il New York Times si è degnato di affrontare l’argomento. Vediamo se anche i media italiani saranno capaci di parlare di qualcosa che vada al di là del loro naso. Forse è giunto il momento di parlare non solo di beghe di paese, ma di diritti umani internazionali, di mondialità, di umanità.